Panchina rossa per Fatiha Bahar. Intervista alla figlia Dalal

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Panchina contro una vittima di femminicidio

Oggi, giovedì 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, a Settimo Milanese in provincia di Milano, alle ore 15, al Bosco della Giretta in via Pastore 7, è stata inaugurata anche alla presenza della Sindaca Sara Santagostino, una panchina rossa, su cui sono state poste un paio di scarpe e una rosa dello stesso colore, per ricordare Fatiha Bahar, una donna marocchina vittima di femminicidio il 23 novembre del 2000. E’ stata uccisa perché voleva divorziare dal marito – padrone integralista islamico, davanti alla figlia minore Dalal, che oggi ha 36 anni ed era presente alla cerimonia di inaugurazione della panchina. Sua madre della giovane donna è morta anche per il suo bene.

D. “Com’è andata l’inaugurazione, Dalal?”

R. “E’ stato emozionante. Emozionante vedere scritto su una panchina il numero antiviolenza, 1522, da una parte, e il nome di mia mamma dall’altra. Sarebbe stata contenta di essere ricordata nel parco a 100 metri dietro alla casa dove è stata uccisa e dove per me ancora rimane.

E’ stato anche triste, ovviamente … Fa male … Ma arrivata a questo punto, posso dire che sto cominciando a “lasciar andare” mia madre, come in fondo è giusto che sia dopo tanto tempo e tanto dolore. Anche perché mesi fa, al processo in cui sono sia parte civile che testimone, è arrivata la sentenza di ergastolo e la richiesta di estradizione per ‘lui’ (Dalal non chiama mai in altro modo suo padre, visto ciò che ha fatto, ndr). Mi sento un po’ appagata”, continua (è la terza volta che ho occasione di intervistarla e la prima in cui forse non ha dovuto soffocare le lacrime, ndr).

Alla cerimonia di inaugurazione della panchina sono stati anche invitati anche i ragazzini di terza media del paese ed è stato toccante perché hanno scritto e letto i loro bigliettini con il nome di mia mamma; hanno spiegato cos’è per loro il femminicidio e alcuni si sono anche commossi. E’ qualcosa che dà speranza per le giovani generazioni.”

D. “E a che punto siamo con la sentenza di ergastolo e l’estradizione?”

“Il processo è iniziato nel 2015 e ha subito diversi rinvii. Fino al 28 settembre scorso. Mi aspettavo un altro rinvio o comunque che le cose andassero male, invece stavolta no. Sono entrati il giudice di Corte d’Assise con gli otto giudici popolari, che mi sorridevano con il pollice alzato. Mi sono rivolta stranita al mio avvocato, chiedendogli cosa stesse succedendo, ma significava che sarebbe andato tutto per il meglio. Proprio come mi aveva detto la pm, quando io, scoraggiata, avevo commentato: ‘Tanto rimandano un’altra volta!’. Invece lei mi ha risposto con testuali parole che ho stampate nella mia mente: “Dalal, ti prometto che ti darò giustizia per tua madre Fatiha”. E così è stato. Ora aspetto notizie dal Marocco.

L’assurdo è anche che ‘lui’ alla Corte d’Assise marocchina abbia detto esplicitamente che non aveva voluto farsi giudicare in Italia, perché lo riteneva uno ‘Stato apostata’: ce l’ho qui scritto (e tiene a citarmi la frase del verbale)! Contava che in Marocco, visto che è uno Stato islamico, sarebbe stato perlomeno graziato (magari pagando una mazzetta)!”.

D. “Ha sputato nel piatto dove ha mangiato, l’Italia, ed è stato offensivo anche col Marocco, insomma?”

R. “Esattamente! Perciò anche il Marocco dovrebbe agire, per assicurare giustizia a mia madre! Certe cose non devono succedere e non devono essere tollerate per nessun motivo! Tornando all’Italia ‘Stato apostata’, non è una definizione strana, per gente indottrinata. Noi figlie non siamo state rimandate nel nostro Paese d’origine come a volte capita decidano genitori integralisti, ma (come la mamma) venivamo chiuse in casa. Io non potevo parlare con i miei compagni e nemmeno con le mie compagne, perché erano cristiani! E’ così che vengono indottrinati i giovani che poi diventano kamikaze! Perciò le scuole italiane devono fare qualcosa.”

D. “Quando c’è violenza sulle donne o addirittura femminicidio in un Paese o comunque in un contesto islamico, si dice che è un problema culturale. Vale anche con colpevoli occidentali?”

R. “Sì, perché si ha alle spalle una famiglia che ti convince che la donna vada vista e meriti di essere trattata in un certo modo. Anche qui si sentono commenti e battute maschiliste: se una donna viene uccisa perché magari tradiva il marito o era sospettata di tradirlo, si dice che ‘se l’è cercata’; idem se viene stuprata: ci si chiede o si stigmatizza com’era vestita. Però qui se non altro ci sono le leggi che puniscono i responsabili della violenza sulle donne.”

R.“In conclusione che messaggio ti sentiresti di dare, a chi ha vissuto la tua stessa situazione?”

D.  “Di non arrendersi mai, perché oltre al male c’è sempre anche il bene. … La mia prossima battaglia sarà per il mio primogenito, rapito dal padre.”

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