Il proselitismo islamista

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Ciò che è avvenuto nel carcere di Alessandria con l’invito ad uccidere Souad Sbai e a far saltare il Tribunale di Torino, da parte di un predicatore jihadista pone la questione del proselitismo carcerario e della radicalizzazione dei detenuti.

La strumentazione psicologica per affrontare la questione non solo è un’arma spuntata, ma se approfonditamente studiata porta ad aprire scenari piuttosto inquietanti e di disperata soluzione. Un esempio per tutti.

Carl Gustav Jung ha descritto l’inconscio collettivo come un contenitore universale che racchiude dispositivi innati di tutte le culture e che si esprimono per simboli. Georges Devereux, antropologo e psicoanalista, ha approfondito ulteriormente questo aspetto ipotizzando un “inconscio etnico, ovvero la parte inconscia che l’individuo ha in comune con la maggioranza dei membri, che si trasmette per via transgenerazionale attraverso una sorta di insegnamento non biologico e che viene sottoposto agli stessi processi di rimozione”.

In parole povere, seconde o terze generazioni, di fronte ad un evento significativo, possono fare emergere questi sedimenti storico-psichici in un sintomo come l’estremismo religioso e la sua messa in atto sociale. È evidente che un approccio occidentale ad un simile problema psichico può essere affrontato solo – come sottolinea un grande etnopsicoanalista come Tobie Nathan – con “serietà psichiatriche ‘altre’ che tengano conto di fattori culturali e contestuali specifici”. Già questo eventuale metodo mi pare piuttosto complesso.

La seconda prospettiva è quella politica. In fondo, gli islamisti fondano le loro idee e le loro condotte su valutazioni di tipo storico-militare: la rivendicazione di una lotta contro l’Occidente, la riaffermazione di una rivincita che purifichi l’onta delle sconfitte subìte, l’espansione – in questo caso con la forza e cortocircuitando le altre tecniche di guerra in atto – di una ideologia guerriera e di uno stile di vita combattivo, l’autocertificazione di difensori e di vendicatori dei popoli oppressi. È simile a quello che è accaduto durante gli anni di piombo con la politicizzazione dei comuni da parte dei detenuti per fatti di terrorismo. Dare una patina di ‘onorabilità’ alle azioni criminali.

In quest’ottica che si fa? Si aprono seminari di storia antica e moderna? Si innescano dibattiti di geopolitica e di geoeconomia? Si istituiscono gruppi di studio di filosofia e di antropologia? Credo che un simile avvicinamento al problema oltre che fallimentare sarebbe soprattutto ridicolo.

Rimane un terzo argomento: quello teologico. Con una gravità ed una difficoltà pari a quella psicologica. L’islam radicale è una fede inossidabile – come potrebbero essere da noi quella che unisce i Mormoni, i Testimoni di Geova o oltre sette millenariste – che prevede una credenza totalizzante, impermeabile agli influssi della ragione, totalmente estranea alla logica dialettica e alla pratica del confronto.

Sul che fare esprimo solo la mia modesta sfiducia. Credo che la soluzione più efficace sarebbe quella giuridica e penitenziaria. I detenuti stranieri – islamisti e non – dovrebbero scontare i loro reati nei paesi di provenienza, con un accordo bilaterale tra giustizie (idea non mia ma di un magistrato). All’interno dei centri di detenzione dovrebbero, comunque, essere ridotte le opportunità di socializzazione in questi casi specifici. E poi c’è un’assenza, quella della cosiddetta società civile. In un incontro, Toni Capuozzo ha affermato che come il terrorismo politico delle Brigate Rosse in Italia è finito quando la sinistra le ha denunciate e smascherate, così dovrebbero fare le comunità islamiche nel prendere le distanze ufficiali da certi comportamenti ed espellere i predicatori di odio. Ma fino ad ora c’è solo un preoccupante silenzio.

Di Adriano Segatori

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