Intervista a Boualem Sansal

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intervista

Perseguitato dai fondamentalisti islamici e costretto a pubblicare i suoi libri soltanto in Europa, lo scrittore algerino Boualem Sansal è a Roma per un tour di presentazioni. Lo incontro tra gli arredi liberty del bar di un albergo del centro inondato dal sole.

Come credi che reagirebbe un lettore che vive in un qualsiasi Paese islamico al tuo romanzo 2084 – La fine del mondo?
La reazione sarebbe molto rabbiosa. Ma io sono tranquillo, in fondo la mia reputazione è già bella che rovinata presso il pubblico islamico. È ai tempi delle mie prime prese di posizione pubbliche e soprattutto dall’uscita del mio primo romanzo che mi sono fatto tantissimi nemici, che sono finito sulla “lista nera”. Ormai quei nemici ce li ho e non posso farci niente, ho imparato a convivere tranquillo con questa consapevolezza. Perché badi bene, con le minacce dei fondamentalisti si riesce a convivere, chi dice il contrario mente. Vivo con attenzione, certo, ma vivo. Mi ci sono abituato.

Nell’agghiacciante distopia dell’Abistan esiste anche un controllo sul linguaggio; l’abiling, la lingua sacra imposta dal regime, ha un ruolo centrale e un sapore arcano, quasi magico. Perché il linguaggio è un’arma così potente?
Senza il linguaggio l’uomo non avrebbe creato la civiltà, senza di esso saremmo rimasti allo stadio animale più primitivo: e più evolviamo, più evolve il nostro linguaggio, più si struttura e meglio ci permette di interrogare il mondo e ci fornisce i mezzi per comprenderlo tramite le parole e i nomi che diamo alle cose. È il linguaggio la magia che crea queste cose straordinarie che sono gli individui e le collettività; senza il linguaggio anche noi due qui non potremmo scambiarci le nostre reciproche visioni del mondo e forse costruirne una comune. Dunque, chi controlla il linguaggio controlla sia l’individuo sia la società e questo nella Storia i regimi lo hanno sempre ben compreso: non a caso hanno sempre imposto una lingua comune, centralizzata, strutturata da loro, insegnata nelle scuole e veicolata in ogni ambito della società. Serve a veicolare i messaggi fra le persone, a costruire l’immaginario collettivo: non si governa mica solo con le armi, si governa anche con le parole. Nell’universo religioso poi il linguaggio ha una funzione ulteriormente cruciale e complessa. Se il nostro mondo materiale è pieno di cose percettibili e descrivibili (persino le idee), il mondo religioso è imbevuto di trascendenza e di magia, e questo accorda al clero un potere supplementare, perché solo i religiosi padroneggiano questa magia, che detengono le chiavi di questa trascendenza. E queste chiavi sono spesso e volentieri delle chiavi linguistiche. Sono le parole, che danno i risultati migliori. E il linguaggio religioso è molto più pervasivo del linguaggio giuridico, di quello burocratico o di quello militare. Il linguaggio dunque è l’uomo, è la vita.

Leggendo 2084 – La fine del mondo si ha ovviamente la consapevolezza di trovarsi di fronte a della fiction, quindi probabilmente a una società dipinta a tinte forti, grottesche, persino un po’ caricaturali. Eppure ci si sorprende a pensare che l’immagine che in Occidente abbiamo della società islamica sia esattamente quella. Tu che sei un uomo in un certo senso a metà strada tra Islam ed Europa, come giudichi l’idea che gli occidentali hanno della società islamica?
Fiction sì, ma non mi ha mai sfiorato l’idea di fare una caricatura. Cerco di far passare attraverso un romanzo la mia esperienza di algerino, di musulmano: perché io in questo mondo ci vivo. Non c’è nulla di caricaturale, è una descrizione che anche a me, non solo a voi occidentali, pare realistica. Perché vuole essere realistica. È la descrizione del mondo musulmano quando è governato solo dalla religione: in Arabia Saudita è così, come in Abistan. Non in Algeria, non in Marocco, perché accanto alle istituzioni religiose là ci sono le strutture di uno Stato moderno, e da questo deriva la tremenda ambiguità in cui ci troviamo: sono un credente musulmano che segue i precetti religiosi o il cittadino di un Paese in cui vigono i principi della legge e della giustizia? Questo per me algerino, perché invece per un saudita non esiste la minima ambiguità: non si tratta di uno Stato moderno, ci sono gli imam e ci sono i credenti, punto. Esattamente lo schema dell’Abistan, altro che caricatura. Il punto è che stiamo cominciando a vivere situazioni simili anche nelle estreme periferie di grandi città d’Europa, che pullulano di giovani che vivono precisamente l’ambiguità di cui parlavo prima: sono un giovane musulmano (o una giovane musulmana) che si veste in una certa maniera, mangia in una certa maniera, pensa in una certa maniera o sono un giovane cittadino di Francia, Germania, Italia e così via? Enorme ambiguità, contraddizione evidente e dolorosa.

Naturalmente dalla critica per 2084 – La fine del mondo sono fioccati i paragoni con Orwell, ma nel tuo romanzo io ci vedo anche molto Kafka, soprattutto nella descrizione di una burocrazia spietata e invisibile, che esercita il suo incommensurabile potere nei luoghi della quotidianità, ovunque, dove meno te l’aspetti: un po’ come succede ne Il processo…
Sono d’accordo con te, ma solo perché mi considero un occidentale per il mio modo di pensare, di vedere le cose. E così anche io avverto come assurda, surreale, una società come quella che descrivo nel mio romanzo. Il problema però è che invece non è assurda affatto, questo è un giudizio di valore. È semplicemente diversa, e un abistanese invece troverebbe assurdo il nostro, di mondo. Se parliamo di Kafka siamo in pieno giudizio di valore, giudichiamo quello che non risponde alla nostra logica, bolliamo come assurdo un mondo in cui 1+1 non è uguale a 2. Con fatica e difficoltà io ho cercato – nella stesura del romanzo – di evitare accuratamente i giudizi di valore, conservando uno sguardo da entomologo che osserva una situazione e la descrive. Ed è la situazione di Paesi che ho visitato e voluto raccontare con uno sguardo privo di pregiudizi, anche se starà al lettore giudicare se ci sono riuscito. Ecco il problema politico di oggi, perché in Europa (e non solo) c’è sempre chi si scaglia contro il modo che ho di descrivere le società islamiche: fai tanto così e ti trovi subito sommerso da accuse di islamofobia e razzismo, semplicemente perché cerchi appunto di astrarti da una sindrome kafkiana e adoperi uno sguardo un po’ più ricco di sfumature.

Sono circa due secoli che in Europa Dio è morto. Due secoli cioè che è praticamente scomparso dalla vita sociale e dal cuore degli uomini. Una società senza un dio è più forte o più debole di una che mette un dio al centro di tutto?
Il mondo moderno nasce dall’idea di abbandonare l’universo della magia per entrare in quello della ragione. Abbiamo fatto della ragione il nostro dio – del resto in Francia dopo il 1789 si sono persino eletti altari, alla ragione – ma non siamo che all’inizio di un processo storico che ritengo sarà ancora molto lungo. L’assenza di Dio paradossalmente ci ha reso più fragili, ci ritroviamo sospesi a metà del guado, in un gran vuoto che la ragione non è ancora riuscita a colmare. Ci siamo lasciati alle spalle molte illusioni e però ancora ci capita di inventare cose per lenire quel senso di vuoto, senza riuscirci. L’Islam ci riesce? Non so. È una religione straordinaria o forse non è una religione, chissà se riuscirà dove la ragione per ora ha fallito. Ma è presto per dirlo, sono soltanto due secoli che Dio è morto, dobbiamo aspettare che sia stramorto per dire davvero che abbiamo imparato a vivere senza di lui, perché l’umanità nei millenni ha sempre vissuto all’ombra di qualche divinità. Il punto però è che oggi l’offerta dell’Islam ha un successo strepitoso e francamente poco comprensibile. Io sono molto stupito non soltanto dal comportamento dei musulmani, in mezzo ai quali vivo, ma anche dal clamoroso numero di conversioni da parte di occidentali o comunque dal manifestarsi di un forte interesse nei confronti di questo credo. Questo sì, che mi stupisce. La risposta sta forse nella gioventù. Sì, al fondo del problema c’è la gioventù e il suo rapporto con la religione. A partire dalla Prima guerra mondiale e non prima, nella nostra società è apparsa una nuova entità: la gioventù. Prima d’allora non esistevano i giovani come categoria sociale separata, si passava dall’infanzia all’età adulta molto rapidamente, nel volgere di pochi anni. Oggi invece abbiamo una categoria sociale fornata da 3-4 miliardi di persone, coloro che sono fra i 14 e i 30 anni in tutto il mondo, che non sono più bambini, nel senso che non si esprimono più con le categorie del gioco e del piacere, ma non sono ancora adulti che si realizzano attraverso istituzioni che poggiano sul concetto di assunzione di responsabilità. La gioventù come si realizza, come trova un senso? Forse nella religione. I giovani di oggi sono una disperazione totale, questo lo sappiamo bene. Per tenere occupate 5 miliardi di persone in questi ultimi decenni ci siamo inventati di tutto: i viaggi (ma il pianeta è quello che è, è uno spazio finito), l’entertainment industriale, le ideologie. A questo punto tocca alla religione. Si è veramente religiosi solo tra i 15 e i 25 anni, avete notato? Chi vive in Paesi in cui la religione è onnipresente si accorge che i veri credenti sono tutti in quella fascia d’età, dopo la cosa si affievolisce, ovviamente.

Mangialibri

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