RISPETTO NON È ADATTAMENTO

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rivendicazione - tattiche - generazione - reintegrazione - gioventù
Prof. Adriano Segatori

RISPETTO NON È ADATTAMENTO – Si chiamava Deborah Samuel, ed era una studentessa cristiana. È stata presa in ostaggio, lapidata e data alle fiamme da un gruppo islamista che aveva ritenuto blasfema una frase espressa dalla ragazza sui social.

C’è poco da discutere sull’evento criminoso: un assassinio determinato da una volontà politica di prevaricazione su chi non accetta la sottomissione acritica a delle norme che poi,
detto in termini laici e con le dovute distinzioni, è un atteggiamento che corrisponde all’imposizione occidentale del pensiero unico imposto dalle élite del potere. Altri metodi,
stessa finalità.
Alcune precisazioni, però, è indispensabili farle, per capire anche cosa succede da noi e come affrontare certe nuove situazioni.
Innanzitutto, il crimine è stato compiuto da amici della giovane, quindi uniti a lei dal legame della conoscenza per studio, per età e per condizione ambientale. La sharia non è stata il
compimento di una fatwā emessa da un imam – anche se poi il responsabile religioso nazionale ha giustificato l’episodio –, ma da studenti che avevano evidentemente
introiettato la legge islamica in senso radicale, assumendosi il ruolo di giudici e di giustizieri in base all’interpretazione della stessa.

Poi, il loro gesto fa calare inquietanti ombre sulla tanto decantata integrazione in occidente.
Se dei ragazzi che, almeno in teoria, dovrebbero essere educati al senso critico, all’analisi e al confronto agiscono in maniera dogmatica e irriflessiva – come da noi è accaduto per la
retorica pandemica, per altro –, quale spazio educativo rimane per intervenire in un terreno in cui il fanatismo e l’intolleranza sono stati allevati con cura da adulti significativi e per
generazioni?
Quanto è accaduto è la rappresentazione perversa e politicizzata dalla religione, che non la esprime come fede ed esperienza interiore, ma come profanazione e offesa di una realtà
trascendente.
Là è la Nigeria, si dirà. Cosa c’entra con le nostre consuetudini europee e occidentali. Nulla nella pratica e nei comportamenti, tranne che in eventi criminosi numericamente limitati,
ma molto nella mentalità e negli stili di vita.
Quando in una piccola città come la mia – che per altro Souad Sbai ha potuto visitare e prendere visione – si accettano solo maschi musulmani nelle liste elettorali – in deroga
alla Legge del 23 novembre 2012, n. 215 che reca disposizioni volte a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei
consigli regionali – e si permettono comizi in lingua bengalese, quindi solo per aderenti alla comunità di cui – fatto gravissimo – non si conoscono le provenienze degli imam, vuol dire che la situazione è fuori controllo.

Le regole basilari di integrazione interessano la lingua, il riconoscimento della legge, il conformarsi alle normative nazionali. Senza questa procedura si confermano delle enclave
estranee al contesto cittadino, quindi autoreferenziali e autogestite.
Qualcuno ha detto che l’unica cosa che insegna la storia è che la storia non insegna niente.
Dalla Svezia all’Olanda, ogni integrazione politica si è dimostrata un fallimento delle istituzioni e un successo del settarismo.

Deborah Samuel, la sua tragica fine, deve diventare un monito per tutti: la libertà religiosa deve essere distinta dalla prepotenza ideologica, e la tolleranza per raccattare quattro voti
elettorali non può prescindere dal rigore giuridico. Hina, Sanaa, Sana e Saman sono state uccise in Italia in nome dell’Islam radicale. L’attenzione deve essere sempre alta affinché
non siano i radicali sotto copertura a dettare le regole del gioco.

Di Adriano Segatori

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