L’ideologia panturanista alla base dei progetti espansionistici di Recep Erdoğan in Asia Centrale, e la possibile collisione con la Russia di Putin
In sintonia con la sua mai sopita propensione imperialista in chiave ‘neo-ottomana’ ‘panturanista’ (il ‘panturanismo’ è una dottrina geopolitica formulata dal linguista ed
etnologo ungherese Arminius Vambery alla metà del XIX secolo) la Turchia di Recep Tayyp Erdogan sta cercando di allargare la sua influenza economica, diplomatica e militare ai Paesi turcofoni dell’Asia centrale.
Trattasi di un’operazione decisamente ambiziosa, ma abbastanza rischiosa in quanto un domani potrebbe metterla in rotta collisione con la Russia di Vladimir Putin e con la Cina di Xi Jinping, potenze con le quali, almeno per il momento, la Turchia mantiene discreti se non buoni rapporti. L’attuale processo di avvicinamento di Ankara verso i BRICs (unione delle economie mondiali emergenti, di cui fanno parte Brasile, Russia, India e Cina, Sudafrica, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Iran: un blocco che vale oltre il 40% dell’economia mondiale) confermerebbe questa tendenza, se non ci fossero di mezzo le suddette mire egemoniche del ‘sultano’ turco che, lo scorso 2 settembre
2024, alla vigilia del 16mo meeting delle Potenze emergenti (Astana, Kazakistan, 22-24 ottobre), ha chiesto l’adesione ufficiale al gruppo.
Ora, il premier Erdogan spera di poter rafforzare i legami etnici e linguistici della Turchia con il Centro Asia turcofono (Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan),
regione ricca di idrocarburi, gas e minerali rari, per esaltare il proprio ruolo in quest’area fino ad oggi controllata da Russia e Cina. Secondo la politologa turca Chagdash Ungor
“uno dei vantaggi più significativi di cui gode la Turchia nei confronti di russi e Cina è il suo soft power. Se da una parte Mosca prevale nelle questioni della sicurezza e dell’esercizio della forza militare, e Pechino per quanto concerne la sfera economica, nessuno dei due può vantare l’innegabile peso che esercitano le relazioni culturali e linguistiche tra Ankara e i popoli dell’Asia centrale”. Ed è proprio in virtù di questo legame che Erdogan preme per allargare ad oriente le sue prospettive egemoniche, cosa non gradita a Pechino (già attiva in Kazakistan e Uzbekistan, ed anche in Afghanistan, con molte sue imprese) e soprattutto a Mosca che desidera mantenere neutrali – ma alleati – i Paesi centroasiatici aderenti alla CSI, cioè i già citati Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Uzbekistan con l’aggiunta del Tagikistan.
L’attivismo del presidente turco va anche interpretato come una mossa per ridurre la sofferta dipendenza di Ankara dalla UE, come spiega la professoressa Tatiana Mitrova, dell’Institut Français des Relations Internationales di Parigi “le politiche turche accentuano di fatto il disagio della Russia, che si scontra con i cambiamenti radicali della sua logistica, visto che la maggior parte degli itinerari verso Occidente risultano ormai bloccati”. Anche gli Stati Uniti, del resto, pongono molta attenzione all’Asia Centrale, cercando di impedire a Mosca di trovare vie d’uscita al suo isolamento e di trattenere la crescente influenza della Cina, e questo potrebbe favorire una convergenza d’interessi tra Washington ed Ankara, anche se quest’ultima si sta dimostrando molto ostile nei confronti di Israele e accomodante con una Russia intenzionata a fare piazza pulita dell’Ucraina appoggiata dalla UE e da
Gran Bretagna e Stati Uniti. D’altra parte, continua la Mitrova “la Turchia rimane un importante alleato per la Nato, soprattutto nel confronto con Cina e Russia”, quest’ultima abituata fin dai tempi del Grande Gioco ottocentesco a considerare i Paesi del cosiddetto cortile asiatico come un’area naturale della propria sfera d’influenza. Ragion per cui – lo
ripetiamo – Mosca non può certo rallegrarsi dell’attivismo di Erdogan nella regione, non impedendo, tuttavia, a Putin di mantenere, obtorto collo, buoni rapporti con Erdogan per l’aggiramento delle sanzioni imposte dalla UE al Cremlino. Tutto ciò almeno allo stato attuale.
In prospettiva futura, e in concomitanza con l’invadenza turca in Asia Centrale, non è infatti improbabile che Mosca intenda rivendicare il proprio primato, innescando una fase di concorrenza aggressiva nei confronti della potenza anatolica. In un modo o nell’altro, secondo i pronostici degli esperti, l’Asia Centrale potrebbe diventare una polveriera la cui miccia è in mano al ‘sultano’ Erdogan, intenzionato a rivestire un ruolo di guida non soltanto economica ma anche culturale e militare nella partita che si sta profilando non soltanto in Asia Centrale, ma anche nel Caucaso, con il suo deciso appoggio al governo del ricco Azerbaigian petrolifero, impegnato a sua volta nella sanguinosa contesa del Nagorno Karabak con l’Armenia cristiana, un tempo protetta dalla Russia ed ora abbandonata a se stessa. Il tutto sullo sfondo del duplice conflitto russo-ucraino e israelo-palestinese-iraniano che vedono in gioco, sullo sfondo, il ruolo di una potenza mondiale piuttosto logora, cioè gli Stati Uniti, che a partire dallo sgombero dell’Afghanistan dell’agosto del 2021, non sembra più in grado di fare valere la propria forza nell’Asia di mezzo.