Afghanistan: quali conseguenze del ritiro americano per le donne?

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Sabato 1° maggio è ufficialmente iniziato dopo vent’anni il ritiro americano dall’Afghanistan. Duemila e cinquecento soldati stanno tornando in patria. Alcune fonti hanno notato che la data è quella decisa dall’accordo firmato nel febbraio 2020 a Doha (caso “strano” proprio in Qatar) tra i Talebani e l’amministrazione Trump (ma i primi hanno lanciato minacce, perché quel giorno sarebbe dovuta terminare la partenza dei militari). Ancora più simbolica la fine del ritiro stabilita dall’amministrazione Biden: l’11 settembre.

Intanto, però, è chiaro che l’accordo con i Talebani non è stato veramente raggiunto e che la guerra sia stato l’ennesimo fallimento della politica estera Usa. Osama Bin Laden è riuscito a fuggire in Pakistan, dove è stato scovato ed ucciso, ma solo dieci anni dopo, il 2 maggio 2011, sotto l’amministrazione Obama ed il pericolo terroristico e talebano nel Paese è tutt’altro che scongiurato.

L’ultima dimostrazione è un attentato compiuto venerdì 30 aprile, proprio il giorno precedente al ritiro delle truppe a stelle e strisce. Un camion-bomba è esploso, causando almeno 30 vittime ed oltre 60 feriti di fronte ad uno studentato e vicino ad una foresteria a Pul-i-Alam, capoluogo della provincia di Logar, ad est di Kabul. Gli studenti provenivano da diverse città ed erano in procinto di sostenere questa settimana l’esame di ammissione all’università. Tra loro c’era una madre che lascia un bimbo di due mesi, sopravvissuto per miracolo.

Notoriamente la condizione della donna è il punto più critico dell’Afghanistan: rimangono pratiche come lapidazioni, frustate, matrimoni precoci, delitti d’onore, attacchi con l’acido, violenze domestiche e nemmeno i famigerati burqa sono spariti. Oltre all’attentato di cui abbiamo parlato, ce ne sono stati altri contro studentesse e giornaliste.

C’è chi osserva che, se gli americani se ne vanno, rischiano di essere aboliti anche quei diritti che le donne in Afghanistan hanno faticosamente conquistato almeno sulla carta. Quali ad esempio? “Il riconoscimento dell’uguaglianza di genere nel testo della nuova Costituzione, l’introduzione di una legge contro la violenza sulle donne nel 2009 (EVAW Law) e l’approvazione di un piano nazionale per le donne (NAPWA) nel 2008; inoltre, fra i segnali positivi vi era stata la ratifica da parte del governo afghano della Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) nel 2003.” Lo ricorda un articolo de “Il Messaggero” intitolato “Intelligence Usa conferma, con il ritiro delle truppe in Afghanistan a rischio i diritti raggiunti dalle donne.”

L’Associated Press informa che il rapporto è stato pubblicato martedì 4 maggio, dal direttore dell’intelligence nazionale Usa e non è il primo sulle conseguenze nefaste di un ritiro americano pur dopo vent’anni.

La settimana scorsa si sono riuniti sia i senatori repubblicani che democratici della Commissione per le Relazioni Estere e hanno espresso le stesse preoccupazioni, incontrandosi con il rappresentante speciale degli Stati Uniti per la riconciliazione in Afghanistan Zalmay Khalilzad.

Quotidiani italiani ed internazionali informano che vengono lanciati appelli anche da politiche afghane, come per esempio Habiba Sarabi, dal 2005 governatrice della provincia di Bamiyan, (diventata celebre suo malgrado proprio nel 2001 con la distruzione degli storici Buddha da parte dei Talebani) e ministra della Condizione Femminile durante la presidenza Karzai dal 2002 al 2004. Inoltre hanno fatto sentito le loro voci Fawzia Koofi, presidente della Commissione per le donne, la società civile e i diritti umani dell’Afghanistan, e Sharifa Zurmati, Membro del Gruppo Negoziale della Repubblica Islamica dell’Afghanistan.

Alla CNN, quando è stato annunciato il ritiro, hanno dichiarato: “Se i Talebani non credono che gli Stati Uniti siano fermamente impegnati per un Afghanistan stabile e democratico, ciò potrebbe creare problemi per i nostri futuri colloqui”.

“Anche se i Talebani possono deridere le donne come segni di un’agenda fissata nelle capitali occidentali, si sbagliano. E la minaccia che loro e i loro alleati rappresentano per noi, rimane reale”.

“Continuiamo – hanno aggiunto determinate – perché sappiamo che un Afghanistan inclusivo è l’unica via per una pace duratura e giusta e per la fine della guerra. Non siamo sole: in Afghanistan le donne di tutti i ceti sociali non vogliono tornare a un’era in cui i loro fondamentali i diritti non contavano nulla”. Tuttavia la preoccupazione che le donne siano vittime della pace come lo sono state della guerra, resta.

Tale preoccupazione è condivisa anche dalla politica, attivista e scrittrice Malalai Joya, sotto scorta dal 2003 per aver denunciato i “signori e i criminali della guerra” in Parlamento, di cui è stata il più giovane membro. È stata sospesa nel maggio del 2007 con l’accusa di aver insultato un suo collega in TV ed intellettuali stranieri come Naomi Klein e Noam Chomsky hanno firmato una dichiarazione in suo favore.

Malalai, che porta il nome di un’eroina nazionale ottocentesca contro gli inglesi, conosciuta come la “Giovanna d’Arco afghana”, ha dichiarato che “La pace è peggiore della guerra, quando non c’è giustizia” (Osservatorioafghanistan.org).

Intervistata pochi giorni fa dal sito Pressenza.com, ha comunque denunciato che oggi i terroristi sono già più forti in Afghanistan e ha accusato gli Stati Uniti di aver fatto in realtà “una guerra ai poveri”. Non solo: ha sottolineato che i diritti delle donne sono migliorati poco o niente.

Le è stato domandato cosa chiederebbe al governo americano e in disaccordo con i pareri precedenti ha risposto: “Gli chiederei di procedere al totale ritiro delle loro truppe il prima possibile e di smetterla di finanziare i gruppi fondamentalisti. Chiederei anche alla popolazione statunitense di portare in tribunale i suoi governanti per aver commesso dei crimini di guerra in Afghanistan e aver dato inizio al conflitto più lungo a cui abbiano mai preso parte con il solo fine di salvaguardare i profitti delle grandi multinazionali”. Prevale insomma un clima di sfiducia e rabbia nei confronti degli Stati Uniti ed angoscia o quantomeno di incertezza per il futuro. Come è ovvio che sia.

Di Alessandra Boga

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