Libia, è caccia alla ministra degli Esteri: divorziata e laureata, rischia la vita

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Najla El Mangoush
©Hamza Turkia/Xinhua News Agency/Newscom/MaxPPP

Libia, è caccia alla ministra degli Esteri: divorziata e laureata, rischia la vita –  Venerdì un blitz contro Najla Mangoush delle milizie filo-turche legate ai Fratelli Musulmani: aveva detto «via tutti i mercenari dalla Libia», scatenando l’ira dell’omologo turco

Senza dubbio Najla Mangoush era ben consapevole tre mesi fa che, accettando la nomina a ministra degli Esteri di un Paese islamico fortemente conservatore quale è la Libia, avrebbe dovuto superare parecchie difficoltà e resistenze. Ma forse non si aspettava che molto presto avrebbe dovuto sopravvivere a quella che numerosi osservatori locali non esitano a definire ormai come una vera e propria «guerra aperta» nei suoi confronti. L’ostilità contro questa donna coraggiosa appena quarantenne — divorziata, madre di due bambine, laureata in Legge all’università di Bengasi, docente negli Stati Uniti — è tale che, secondo alcuni, rischierebbe addirittura la vita. Lo prova, tra i tanti gesti ostili cresciuti nelle ultime settimane, anche il blitz venerdì sera di alcune milizie filo-turche e legate ai Fratelli Musulmani contro l’hotel Corinthia, nel cuore di Tripoli. Gli esponenti del nuovo governo di unità nazionale guidato dal neopremier Abdel Hamid Dabeibah minimizzano. Ma la vicenda appare grave.

Uomini armati legati in particolare alle milizie misuratine che parteciparono alla «Vulcano di Rabbia», la campagna militare per difendere la capitale nel 2019-20 dall’offensiva delle forze della Cirenaica guidate da Khalifa Haftar, speravano di catturarla durante le riunioni governative che si tengono proprio nel Corinthia. Loro obbiettivo era anche Hussein al-Klalifa al-Aib, un ufficiale pro-Haftar voluto dal nuovo governo a capo dei servizi segreti in nome della riunificazione tra Tripolitania e Cirenaica. La reazione delle milizie dell’ovest mostra dunque quanto ancora in salita resti la strada per Dabeibah. Ma le difficoltà della Mangoush sono ancora più significative.

Vista come troppo pro-occidentale dal fronte islamico sostenuto da Erdogan, gli attacchi diretti contro di lei sono iniziati tre settimane fa, quando durante la sua visita a Roma si espresse a favore del ritiro di «tutti i mercenari e dei soldati stranieri dalla Libia». La risposta di Ankara non si fece attendere. «Noi siamo in Libia per difendere il governo legittimo. Nulla a che vedere con i mercenari», dissero subito i leader turchi. Intanto il gran muftì Sadiq Al Ghariani, importante esponente religioso libico, dal suo esilio turco definiva pubblicamente la ministra come <una persona cattiva, spregevole, al servizio del progetto sionista>. Ancora nelle ultime ore la Mangoush ha ribadito che «tutti gli stranieri devono andarsene», menzionando specificamente i contractors dell’agenzia russa Wagner, oltre alle milizie sudanesi dei Janjaweed e i mercenari siriani che lavorano sia per Haftar che per i turchi. In sua difesa è intervenuto invece l’ambasciatore americano Richard Norland, che ha ribadito la necessità del ritiro di «tutte le forze straniere, senza distinzioni». Si parla di circa 20.000 combattenti. A sua volta il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusolglu, ha reiterato la legittimità del loro intervento armato. Il braccio di ferro continua.

Corrieredellasera

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