Il 4 agosto 2020 la devastante esplosione nel porto di Beirut, capitale libanese. A un anno di distanza le famiglie delle vittime reclamano giustizia mentre il Paese si dibatte nella peggiore crisi economica e politica degli ultimi 30 anni
Sono le 18:08 del 4 agosto 2020 quando una delle più potenti esplosioni non nucleari della storia devasta il porto di Beirut e interi quartieri della capitale libanese facendo oltre 200 vittime e 7mila feriti, costringendo 300mila persone ad abbandonare le proprie case, distrutte o fortemente danneggiate da un impatto esteso fino a 20 chilometri di distanza. L’esplosione è stata causata dalla detonazione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio rimaste apparentemente incustodite per anni in un magazzino del porto.
A un anno dalla tragedia ancora non c’è chiarezza su come quel carico sia arrivato al porto di Beirut, su come sia rimasto lì e su cosa abbia innescato l’esplosione. L’ipotesi più accreditata è quella dell’incidente, anche se gli inquirenti non hanno ancora escluso del tutto quella di un attacco missilistico. Intanto le famiglie delle vittime chiedono verità e giustizia. L’unica certezza appare l’impatto che ha avuto sul Libano, nel mezzo della pandemia di coronavirus e colpito dalla peggiore crisi economica degli ultimi 30 anni, senza contare le ripercussioni della crisi che dal 2011 si trascina nella vicina Siria.
Fadi Sawan, il primo giudice a indagare sull’esplosione, lo scorso dicembre ha accusato di ‘negligenza’ e ‘incuria’ il premier uscente Hassan Diab e tre ex ministri. A febbraio è stato rimosso e il dossier è passato nelle mani di Tareq Bitar che un mese fa ha aperto un fascicolo contro nove personalità ai vertici delle istituzioni e dei servizi di sicurezza del Paese, indicate come presunti corresponsabili del disastro. Tra gli indagati, oltre a Diab, ci sono ex ministri, deputati e il capo dell’intelligence, il generale Abbas Ibrahim. L’establishment politico libanese, fortemente contestato a causa della crisi scoppiata nell”autunno del 2019, ha finora fatto quadrato e non ha concesso la rimozione dell’immunità per le nove figure istituzionali messe sotto accusa.
”Le autorità libanesi hanno trascorso l’ultimo anno ostacolando spudoratamente la ricerca della verità e della giustizia per le vittime della catastrofica esplosione del porto di Beirut”. Lo sostiene Amnesty International in una nota in occasione del primo anniversario dell’esplosione. Nel corso dell’anno gli sforzi delle autorità libanesi per proteggere i funzionari hanno ripetutamente ostacolato il corso delle indagini, scrive Amnesty, ricordando che il primo giudice incaricato dell’inchiesta è stato allontanato dopo aver convocato esponenti politici per l’interrogatorio. Documenti ufficiali, spiega Lynn Maalouf, vicedirettore per il Medio Oriente e il Nord Africa della Ong, indicano che le autorità doganali, militari e di sicurezza libanesi, nonché la magistratura, avevano avvertito i governi successivi della pericolosa scorta di sostanze chimiche esplosive nel porto in almeno 10 occasioni negli ultimi sei anni, ma non è stata intrapresa alcuna azione.
Il presidente ha anche affermato di essere a conoscenza del pericolo ma di aver “lasciato alle autorità portuali il compito di affrontarlo”. Nonostante ciò, parlamentari e funzionari hanno rivendicato il loro diritto all’immunità durante l’indagine. Da più parti si è invocata l’apertura di una inchiesta internazionale indipendente: ”Le settimane di proteste dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime sono un duro promemoria di ciò che è in gioco. Il loro dolore e la loro rabbia sono stati esacerbati dal momento che, di volta in volta, le autorità ostacolano il loro diritto alla verità e alla giustizia”, conclude Lynn Maalouf.
La tragedia del porto è stata raccontata anche attraverso alcune immagini simbolo. Alcune settimane dopo il disastro Associated Press ritrovò la ragazza protagonista di una delle foto più commoventi scattate il 4 agosto 2020 a Beirut, per raccontare la sua storia e quella della sua famiglia, una famiglia siriana, originaria di Aleppo e rifugiatasi in Libano, raccolta intorno al tè della sera che discuteva animatamente di quello strano fumo rosa che si levava dal porto un attimo prima che, in un lampo le due esplosioni distruggessero il quartiere e cambiassero per sempre la loro vita: “Il porto ci è venuto incontro”.
Un’altra foto simbolo è quella selezionata dalla giuria del World Press Photo, il prestigioso premio di giornalismo visuale, tra le immagini finaliste del concorso di quest’anno. Si tratta di “Uomo ferito dopo l’esplosione del porto a Beirut” dell’italiano Lorenzo Tugnoli per il Washington Post. Nel motivare la scelta dello scatto di Tugnoli, che ritrae un uomo a torso nudo, ferito, sullo sfondo del fumo che ancora si leva dal luogo del disastro, i membri della giuria del concorso hanno messo in evidenza il contrasto tra forza e fragilità che esprime il soggetto dell’immagine, “un grande momento di umanità di fronte alla tragedia”, espressione della “capacità di sopravvivenza”.
“Il Gesto”, la scultura in memoria che fa discutere
La gigantesca scultura fatta con i rottami dell’esplosione della scorsa estate è stata inaugurata lunedì nel porto di Beirut, suscitando l’apprezzamento di alcuni ma anche la rabbia di altri libanesi che credono che la giustizia debba venire prima delle cerimonie in memoria. L’opera d’arte intitolata “Il Gesto” è una creazione dell’architetto libanese Nadim Karam, che dice di aver voluto rendere omaggio alle famiglie delle vittime dell’esplosione. È stato finanziato da un certo numero di aziende private. “È un gigante fatto di cenere, delle cicatrici della città, e le cicatrici delle persone che non sono ancora guarite”, spiega Karam, aggiungendo che spera che le famiglie di coloro che hanno perso la vita guardino l’opera in modo positivo. L’esplosione del porto di Beirut ha fatto oltre 200 morti, migliaia di feriti e ampie zone della città distrutte. Un anno dopo, nessun alto funzionario è stato ritenuto responsabile e le indagini sono in stallo. Per alcuni si tratta di un simbolo positivo: “Per me il fatto che sia fatto di acciaio proveniente dal sito è già un’affermazione forte” dice Joseph Chartouni, 46 anni, un architetto che ha perso la madre nell’esplosione. Ma altri sono polemici con il progetto, sostenendo che non ci dovrebbe essere una commemorazione senza che prima sia stata fatta giustizia. Una campagna sui social media contro Karam e la sua scultura è circolata una settimana prima dell’inaugurazione. Nell’ottobre dello scorso anno, per segnare il primo anniversario delle proteste del movimento anti-governativo, una “Statua della Libertà”, anche questa fatta con le macerie dell’esplosione, era comparsa di fronte al porto.