Erdoğan e l’ombra dell’Isis

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Erdoğan e l’ombra dell’Isis – Dopo l’uccisione del capo dell’Isis Al Qurayshi, scovato e ucciso in un covo a ridosso della frontiera turca, si moltiplicano i sospetti sui legami con il gruppo terrorista. Anche perchè in quella regione della Siria l’esercito di Ankara controlla il territorio e appoggia i gruppi jihadisti.
E l’assalto alla prigione di Al Hasakah, in cui sono detenuti i miliziani dello Stato Islamico*, era stato preceduto da numerosi attacchi della Turchia ai posti di blocco curdi, che presidiano la zona.
Ci risiamo. Il presidente turco Recep Tayyp Erdoğan e i suoi servizi segreti sono di nuovo sospettati di collusioni con i vertici dell’Isis e con l’attività delle sue cellule. Un sospetto moltiplicatosi dopo la scoperta che il leader dell’organizzazione terrorista, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, ucciso in un raid lo scorso 3 febbraio, si nascondeva a Barisha, un villaggio della provincia siriana di Idlib, a meno di 25 chilometri dalla frontiera turca.
Un particolare reso più inquietante dal precedente di Abu Baqr Al Baghdadi, meglio conosciuto come il Califfo, scovato e ucciso anche lui nella zona di Barisha. Il primo interrogativo è come entrambi i capi dell’Isis abbiano potuto trovare ospitalità in un’area sotto il controllo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), l’organizzazione di stampo alqaidista conosciuta un tempo con il nome di Al Nusra.
L’Isis e Hayat Tahrir al-Sham, oltre ad esser organizzazioni rivali, sono stati protagonisti negli anni di un’autentica guerra costata centinaia di morti. Con quei precedenti, solo l’intermediazione o l’intervento di una forza capace di costringere il gruppo al-qaidista a garantire ospitalità a due capi dell’organizzazione rivale. Anche perchè l’unica alternativa è che Al Baghdadi, prima, e Al Qurashi, dopo si siano insediati su quei territori all’insaputa di chi li controlla. Ma si tratta di un alternativa poco probabile. La presenza di un super ricercato genera, inevitabilmente, movimenti di scorte armate e corrieri incaricati di garantire i collegamenti con gli altri leader dell’organizzazione.
Movimenti che ben difficilmente potevano restare segreti. Ma ad Idlib l’unica forza in grado d’imporsi su Hayat Tahrir è l’esercito turco. Ankara, dal 2016, mantiene una presenza costante sui territori di questa provincia nord occidentale della Siria, coordinandosi costantemente con Hayat Tahrir e le altre formazioni jihadiste, a cui non manca di garantire appoggio e armamenti. Tra queste anche Dailaq al-Sham, un gruppo di militanti islamisti formato da esponenti delle minoranze turcomanne, presente sia in Siria, sia In Iraq.
Al-Qurayshi, nativo di Tal Afar, una roccaforte dell’Isis nel nord dell’Iraq, dove la presenza turcomanna è assai consistente, apparteneva anche lui a quella minoranza. I turcomanni di Dailaq al-Sham controllavano un posto di blocco distante meno d’un chilometro dalla sua abitazione. Un altro gestito da Hayat al Rahrir si trovava, invece, a soli 500 metri. Ma ancor più vicini all’ultimo rifugio del capo dell’Isis erano i soldati turchi dell’avamposto di Bukulmez, uno dei quaranta che l’esercito di Ankara mantiene sui territori siriani della provincia di Idlib.
Proprio per questo c’è da chiedersi se i turchi siano stati complici degli americani, fornendo loro informazioni utili al raid, o abbiano collaborato, invece, con chi ospitava Al Quraishi. Molti propendono per la seconda ipotesi. Le collusioni tra l’Isis e i servizi segreti di Ankara non sarebbero del resto una novità. Nel 2014 le colonne di autocisterne cariche di petrolio estratto nei pozzi siriani scaricavano il loro carico appena oltre il confine turco. E i traffici raggiunsero un livello tale da trasformare una Turchia, priva di pozzi di petrolio, in un paese esportatore di greggio.
Allora non mancarono le denunce di giornalisti turchi, finiti poi sotto processo. Altri denunciarono i carichi di armi turche transitate nei territori dell’Isis sotto la regia dei servizi segreti di Ankara. Altri ancora segnalarono la presenza di decine di feriti dell’Isis curati negli ospedali turchi di frontiera. Ma dopo le denunce dell’epoca e gli attentati siglati dall’organizzazione, Erdoğan sembrava aver rinunciato a quelle relazioni pericolose. Negli ultimi mesi, però, i segnali di una regia turca pronta a garantire il ritorno dell’Isis sul teatro siriano e su quello iracheno si sono fatti inquietanti.
La plateale offensiva del terrorismo, scattata lo scorso 27 gennaio, ha investito entrambi i fronti. Quella notte, un commando terrorista ha assaltato una casermetta dell’esercito iracheno nella provincia di Diyala, uccidendo una dozzina di soldati. Quasi contemporaneamente, una colonna di oltre un centinaio di militanti dell’Isis ha dato l’assalto alla prigione di Al Hasakah – dove sono detenuti più di 3.500 ex-militanti dell’organizzazione – ingaggiando una battaglia prolungatasi per oltre una settimana e costata centinaia di vittime tra terroristi, forze curde e civili.
Il raid contro la prigione di Al Hasaka era stato preceduto dalle continue azioni di disturbo della Turchia, sempre pronta a colpire, con l’artiglieria o i missili dei droni, le postazioni dei curdi del Fronte Democratico Siriano. E questo ha senza dubbio facilitato l’assalto dell’Isis. Non a caso gli americani, nell’annunciare l’eliminazione di Al Quraishi, sono stati ben attenti a sottolineare che il raid “era stato realizzato grazie all’essenziale collaborazione con le Forse democratiche siriane”.

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