Mentre la furia vaccinatrice dilaga e la voglia di libertà anche, gelido il vento della disoccupazione spazza tante realtà imprenditoriali e travolge ogni giorno di più un economia, quella italiana, che già prima della pandemia non versava certo in ottime condizioni. Il tasso di disoccupazione, nel 2019, a livello nazionale era pari al 9,8 per cento e corrispondeva a circa due milioni e mezzo di residenti in Italia che cercavano un lavoro senza trovarlo ed una pattuglia niente male di rassegnati che il lavoro non lo cercavano più.
L’emergenza sanitaria ha provveduto a penalizzare le categorie già in precedenza caratterizzate da situazioni di svantaggio: nel secondo trimestre del 2020 le riduzioni congiunturali del tasso di occupazione sono diventate più marcate per i giovani 15-34enni, le donne e i residenti del Mezzogiorno. Mai da soli i problemi, mai. Molti, tra i nuovi disoccupati, erano attivi nei settori della cultura ed in particolare nei settori dell’arte dello spettacolo e della musica. E se, nel 2019, l’improbabile affermazione: “con la cultura non si mangia”, sembrava definitivamente confutata, e le illusioni regalate dal successo del turismo culturale sembravano una realtà destinata a crescere fino a guarire l’ormai atavica ferita della disoccupazione, l’Annus Horribilis della pandemia ha costretto ad una brusca revisione dei dati: i settori più colpiti sono stati proprio i settori culturali e creativi. Qualche dato, valà: secondo i dati Istat tra marzo e maggio 2020 c’è stata una mancata affluenza di visitatori nei musei italiani di circa 19 milioni di visitatori. Nel 2019 gli occupati del settore turistico erano 1 milione e 647mila mentre la cultura coinvolgeva 636mila occupati.
I posti di lavoro persi in turismo e cultura rappresentano circa la metà di tutta l’occupazione persa tra il 2019 e il 2020. Ben 456mila persone non hanno più un lavoro. Una bazzecola direbbero i fiorentini. Quisquilie e pinzillacchere, commenterebbe il grande attore napoletano.
Il “canto de dolore nostrum” può finire qui. Bisogna ricominciare, si sente dire da ogni rappresentante politico senza distinzione di colore. Bene, nessuno si oppone al miglioramento. Tutti disponibili anche a contrarre un debito enorme che dovrà essere ripagato entro il 2056. La base del problema non è però fatta solo dalla necessità di fondi. Parafrasiamo il Marylin Monroe assunto: piangere in Ferrari è sempre meglio che piangere in Cinquecento. Certo, ma sia l’una che l’altra hanno bisogno di qualcuno che sappia farle funzionare. Disporre di fondi importanti è un ottima opportunità, ma recuperare al lavoro un numero di persone senza occupazione, che minaccia di aumentare ancora, è un altro discorso che necessita di un nuovo know how. Il settore dei beni culturali, ad esempio. Voler gestire gallerie, musei e siti archeologici con le solite modalità pre covid non genererà nuove economie, al massimo, con un po’ di fortuna, potrà riportare la situazione al fatidico status quo ante. Un buon risultato, ma per creare occupazione, generare ricchezza, far crescere il settore bisogna rivoluzionare i modi della gestione.
Si è visto che l’autonomia di alcuni musei ha generato, con la guida di direttori capaci, incremento di iniziative e visitatori. Si può migliorare: dirigere un museo è anche studiarne l’allestimento, graduare e calibrare la sinusoide dell’interesse da suscitare nel pubblico, è progettare l’esperienza del visitatore. Ad ognuno di questi compiti corrisponde una precisa professionalità. In Inghilterra, in America e in tantissimi altri paesi il direttore è coadiuvato da società che si occupano degli svariati aspetti di un esposizione museale, e che forniscono soluzioni diverse, per dirla con un termine di uso molto contemporaneo, sartoriali. Esporre Chagall non è lo stesso che esporre Michelangelo o la Venere Callipigia. È tecnica, conoscenza e applicazione. In una parola Interpretazione. Si studia, si fa propria, si attua e rende. Non basta una bianca parete, un supporto o una tecaconfaretto.
Cosa c’entra tutto questo con l’occupazione, come influisce sul numero di delusi che non cercano più lavoro. Domanda legittima. Basti pensare al numero di professionalità che dovrebbero collaborare con la direzione della struttura espositiva. Basti pensare all’indotto che automaticamente si genererebbe dovendo continuamente cambiare le modalità di visita per i fruitori, e giusto in un sussurro, si potrebbe approcciare l’idea di far pagare un biglietto dall’importo non simbolico. Tutti spendiamo per avere in cambio qualcosa, ed in genere sono beni materiali. Pagare per entrare e visitare un museo, può non sembrare un grande acquisto, in particolare per gli italiani, perché la visita si risolve generalmente in una passeggiata tra cose belle. Offrendo al visitatore un emozione, un ricordo indelebile, un esperienza da raccontare, non si riscontrerebbe alcuna ritrosia da parte del visitatore a pagare il biglietto. I musei devono diventare autonomi economicamente, tanto da permettersi anche le collaborazioni necessarie alle esposizioni. English Heritage, Royal Palaces Agency, le famose fondazioni che amministrano strutture aperte al pubblico sono collegati alle strutture di controllo statali ma si muovono in autonomia, mettendo a reddito beni come la Torre di Londra, le chiese storiche o qualsiasi altro bene culturale gli si affidi. Non da oggi. Nessuna profanazione spudorata della dignità delle opere d’arte: soltanto creatività che lega saperi umanistici e competenze scientifiche in alcune originali sintesi.
Una stimolante cultura d’impresa che da noi sarebbe rivoluzionaria. L’effetto? Un boom nella creazione di ricchezza, nella competitività e nell’attrattività. Si innescherebbe, con queste pratiche, un vero e proprio circolo virtuoso: i luoghi dei talenti attraggono altri talenti. Per ogni nuovo posto di lavoro a sofisticato contenuto tecnologico e culturale se ne creerebbero altri cinque, sia in settori qualificati (avvocati, insegnanti, medici, infermieri) sia in settori meno qualificati, legati ai servizi alle imprese e alle persone. Si metterebbe in moto un vero e proprio “ascensore sociale” (importa ciò che sai, impari e sai fare, non chi sei, per estrazione familiare) che sarebbe un ulteriore molla della crescita. Immaginazione + Cultura + Creatività = Sviluppo economico e sociale. Questo è ciò che serve. Il Bureau of Economic Analysis, il principale istituto di statistiche degli Usa, ha inserito tra i fattori del Pil anche la “creatività”. Non è un caso. Diamoci da fare, se questa è l’equazione giusta, il risultato ci sarà.