Quello dell’umanizzazione della malattia mentale è un percorso ancora lungo. Affinché le cose cambino occorre liberarsi dalle false credenze, dalla violenta logica manicomiale e vedere i pazienti come persone.
Il 13 maggio 1978 con la legge 180 “Basaglia”, si decise la chiusura definitiva dei manicomi e il divieto di costruirne nuovi. Punto fondamentale della legge, era Il riconoscimento della persona malata di mente come titolare di diritti e non da ultimo, il recupero sociale dei pazienti.
Purtroppo però l’umanizzazione della malattia mentale resta ancora lunga. Una significativa testimonianza in tal senso ci viene dalla dottoressa Nicoletta Calchi Novati, psichiatra che ha pagato per il suo atteggiamento eretico nei confronti di chi prescrive farmaci e procedure di contenzione a persone che nella maggior parte dei casi avevano bisogno semplicemente di essere ascoltate e rassicurate. La dottoressa Novati, nella sua esperienza lavorativa all’ospedale Niguarda di Milano notava come venivano esasperate le situazioni, prescrivendo molto più facilmente di prima l’uso di farmaci e di misure contenitive. Vigilava sui trattamenti non disposti da lei o non registrati dagli operatori sanitari, e segnalava puntualmente gli abusi. Ad un certo punto però, ha iniziato ad avere disturbi del sonno ad essere derisa, subendo ogni tipo di sopruso nel rapporto con i suoi pazienti che venivano assegnati ad altri. Le reazioni non si sono fatte attendere subendo otto provvedimenti disciplinari, il licenziamento dal Niguarda, la perizia psichiatrica e la sospensione dall’Ordine dei medici per tre mesi.
Il 30 giugno 2019, è stato conferito un riconoscimento al servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale di Ravenna diretto dal dottor Roberto Zanfini, in quanto nel biennio 2017/2018 ha raggiunto l’obiettivo di zero contenzioni meccaniche in psichiatria, la pratica di legare i pazienti nei luoghi di cura totale spersonalizzazione. Un tema poco raccontato. Anche la storia di Antonia Bernardini è poco conosciuta, ha inizio nel settembre del 1973 quando Antonia litiga per motivi banali alla biglietteria della stazione di Roma Termini. Nella discussione è coinvolto un giovane carabiniere che l’arresta per oltraggio. Comincia così una triste e incomprensibile storia. Antonia è condotta prima in carcere, poi nel manicomio di Roma e infine nel manicomio femminile di Pozzuoli, dove viene internata senza mai vedere i familiari o un avvocato. Legata al letto di contenzione per 43 giorni, Antonia riesce, in segno di protesta, a dar fuoco al suo materasso. Soccorsa in ritardo, giunge all’Ospedale Caldarelli, dove dopo quattro giorni agonia, prima di morire, riesce solo a dire al PM che la interroga: “Ci legavano come Cristo in croce”.
Ricordo la mia esperienza di tirocinante, dopo la laurea in psicologia, presso una struttura ospedaliera. Era l’anno 1993; ricordo arrivare una mattina un ragazzo che aveva appena conseguito la maturità scientifica, ”trasportato” da due carabinieri, era in preda ad una crisi psicotica, venne sedato e contenuto. I miei occhi rimasero sgranati di fronte ad una tale disumanizzazione della malattia mentale. Il ragazzo rimase sedato e contenuto per diversi giorni ed io puntualmente la mattina mi recavo da lui con la certezza della mia impotenza. Dopo 15 giorni il ragazzo fu dimesso ma la sua esperienza fu così forte da rimanerne traumatizzato a vita; iniziò per lui il lungo viaggio della malattia mentale.
Credo fermamente che affinché le cose cambino, sia necessario innanzitutto liberarsi dalle false credenze, dalla violenta logica manicomiale che ha dominato indisturbata in quella che possiamo definire una cattiva psichiatria, per lasciare il posto ad una concezione della malattia mentale che veda i pazienti come persone, “come matti da slegare”. L’obiettivo raggiunto dal reparto psichiatrico di Ravenna, è stato reso possibile grazie ad interventi strutturali che hanno curato l’ambiente, rendendolo il più vicino possibile ad un domicilio piuttosto che ad un ospedale. Interventi di tipo clinico, che prevedono piani di trattamento individuali, consistenti in percorsi di cura a tutto tondo e non solo farmacologica, estendendo i trattamenti non solo alla persona ma a al contesto socio ambientale in cui vive. Inoltre, molto importante, anche gli operatori, sono stati formati al fine di poter eseguire trattamenti con approcci di tipo psicologico e psicosociale, superando la logica custodialista e repressiva, riconoscendo i diritti della persona e la sua soggettività; il traghettare dunque la concezione di malattia mentale alla concezione di salute mentale. Ancora oggi infatti un modo comune di definire la salute è quello di riferirsi alla malattia, quindi salute intesa come assenza della malattia. Negli ultimi anni, il tema della salute mentale ha trovato sempre più spazio nei programmi nazionali ed europei.
La necessità dell’abbandono dei manicomi e la creazione di servizi sul territorio ed offerti alla popolazione nel pieno rispetto dei diritti umani, è stata sottolineata con forza nella conferenza ministeriale europea promossa dall’OMS sulla salute mentale ad Helsinki nel 2005 (Mezzina, 2006). Punto molto importante della dichiarazione, è che l’offerta di cure debba essere erogata in servizi aperti alla comunità, inoltre viene previsto un ruolo marginale al ricovero ospedaliero, limitato al trattamento di situazioni con particolare gravità. Con la dichiarazione europea di Helsinki nel 2005, i paesi europei hanno individuato tra le principali priorità: la promozione e la prevenzione del benessere mentale attraverso la realizzazione di sistemi di salute mentali completi, integrati ed efficienti; la lotta allo stigma e alla discriminazione; il riconoscimento delle competenze dei pazienti e delle loro famiglie, in modo che possano partecipare attivamente ai processi di cura e di inclusione.
Noi qui dentro si vive in un lungo letargo.
Si vive afferrandosi a qualunque sguardo contandosi i pezzi lasciati lì fuori,
che sono i suoi lividi che sono i miei fiori.
Io non scrivo più niente, mi legano i polsi
ora l’unico tempo è nel tempo che colsi.
E qui dentro il dolore è un ospite usuale,
ma l’amore che manca è l’amore che fa male.
(Cit. Roberto Vecchioni “Canzone per Alda Merini”)