La maggior parte di noi conosce la NATO per essere la più grande alleanza difensiva al mondo, da settant’anni a protezione dell’integrità territoriale dei suoi (attuali) trenta Stati membri e diventata negli anni della Guerra Fredda baluardo dei valori occidentali. Meno conosciuto è invece l’impegno della NATO nei confronti della tutela dei diritti delle donne e, in generale, dell’uguaglianza di genere, che va avanti dai primi anni 2000.
Il documento ispiratore dell’azione NATO a tutela dei diritti delle donne è la risoluzione ONU 1325 del 2000, che istituisce la Women, Peace and Security Agenda. Memori dell’esperienza traumatica della guerra di Jugoslavia, che aveva colpito duramente la popolazione civile e in particolar modo le donne, gli Stati membri dell’ONU si impegnarono ad adottare un approccio strategico nuovo, che tenesse conto del particolare impatto dei conflitti sulla popolazione civile femminile. Sulla base di quanto affermato dalla risoluzione, molti Stati ed Organizzazioni Internazionali si sono impegnati negli anni ad adottare la propria agenda WPS: fra questi, gli Stati Uniti, il Canada, la Gran Bretagna, l’Unione europea e la NATO.
La strategia NATO a tutela dei diritti delle donne nasce formalmente nel 2007 e si fonda su tre pilastri: integrazione, inclusività e integrità. Il primo prevede che il tema dell’eguaglianza di genere ispiri ogni azione, politica o programma posti in essere dalla NATO. Il secondo mira a garantire un maggiore coinvolgimento del personale militare e civile femminile nei vari contingenti nazionali e nell’ambito dello Staff NATO. Il terzo configura la lotta contro le pratiche degli Stati membri che abbiano un impatto direttamente o indirettamente discriminatorio.
A questo punto, potrebbe sorgere spontanea una domanda: perché un’alleanza militare difensiva dovrebbe avere tra i suoi principi ispiratori l’uguaglianza di genere? Si possono dare molte risposte, ma la principale è che il conflitto ha un impatto diverso nei confronti degli uomini e delle donne, specie nelle società in cui la divisione dei ruoli in base al genere è più marcata. Ad esempio, in un Paese dove il conflitto ha distrutto il tessuto economico, un uomo può essere più esposto al rischio di entrare a fare parte di bande armate irregolari, che spesso rappresentano l’unica possibilità di percepire un reddito. Una strategia di peace building efficace deve quindi concentrarsi sulla creazione di nuove opportunità di lavoro. Una donna è invece più esposta al rischio di stupro o di sfruttamento sessuale. Quindi, un intervento deve essere finalizzato a eradicare le bande armate locali che fanno della tratta di donne una fonte di reddito. A maggior ragione, in quest’epoca post-Guerra Fredda, le guerre diventano sempre più “ibride”, e i combattenti prendono essenzialmente di mira non tanto l’esercito avversario quanto la popolazione civile: basti pensare, ancora una volta, al caso jugoslavo. È quindi ancor più necessario tenere presente il diverso impatto del conflitto sui vari gruppi di popolazione, in modo da aumentare l’efficacia degli interventi NATO nelle aree di crisi.
L’implementazione dell’Agenda WPS della NATO ha da sempre incontrato numerose difficoltà, dovute in primo luogo agli orientamenti dei vari Stati parte. Sebbene la NATO fornisca agli Stati una serie di linee guida e principi ispiratori della strategia, la concreta attuazione di essi spetta agli Stati membri, che spesso hanno sensibilità diverse in relazione a questo tema e non destinano una quantità di risorse sufficiente a garantirne l’effettività. Un altro problema è che, quando è stata attuata sul campo, è stata gestita in maniera certamente entusiastica ma disorganizzata, con truppe prive di un’adeguata formazione in quest’ambito. Basti pensare all’Afghanistan, dove sia l’esercito americano che la NATO hanno compiuto notevoli sforzi per stabilire contatti con la popolazione femminile locale, nella speranza di coinvolgerla nel processo di pace. In realtà, i risultati sono stati molto inferiori alle aspettative, a causa, tra l’altro, della mancanza di risorse e della scarsa disponibilità di mediatori culturali capaci di esprimersi correntemente in lingua Pashto.
Tuttavia, al posto di concepire questi errori di implementazione come indizio di inefficacia dell’Agenda WPS NATO, bisogna servirsi delle esperienze passate per migliorare l’azione di uno strumento che, se ben impiegato, può rivelarsi un’arma importante nel contesto dei conflitti ibridi che il mondo si trova attualmente ad affrontare. In questo senso vanno lette anche le parole pronunciate dal Segretario Generale NATO Stoltenberg nel suo discorso in occasione dei vent’anni della Risoluzione ONU 1325/2000 : “Our efforts on Women, Peace and Security make NATO stronger. […] To make better decisions, we also need to understand that the challenges we face – and our response to them – can affect women and men differently. […] I am convinced that advancing this agenda will make NATO even stronger and fit for the future.”