23 maggio 1992: l’offensiva stragista di Cosa Nostra

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Cinquantasette giorni separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Palermo oggi commemora le vittime dei due eccidi: 29 anni dopo continua la ricerca di una verità piena, con nuove indagini.

Un’onda lunghissima e dolorosa di silenzi e misteri che ancora non si è arrestata. Un tempo tragico, oscuro e colmo di tensione. Cinquantasette giorni separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Ventinove anni i due eccidi da una verità piena la cui ricerca è ancora oggetto di processi e nuove indagini.

Un attentato contro Giovanni Falcone era temuto, quello contro Borsellino apparve dolorosamente annunciato: entrambi si consumarono in un contesto di incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di “colossale depistaggio”. Il verdetto del processo Stato-mafia, del 20 aprile 2018, con l’Appello che va verso la requisitoria, ha aperto scenari inediti. La trattativa, stabilisce quella decisione, c’è stata: pezzi di istituzioni e i vertici di Cosa nostra avrebbero negoziato mutue concessioni, condizionato scelte e uomini, e accelerato l’epilogo tragico del 19 luglio.

“Avevano già iniziato a farli morire”

Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Alle 17.58, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta. Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma.

La prima auto blindata – con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo – venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schiantò contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L’esplosione divorò un centinaio di metri di autostrada. Poco più di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denunciò la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni: “Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual è stata la statura di quest’uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Meli”.

A un certo punto, raccontò Borsellino, “fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura”. La mafia “ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia”.

Al cuore dello stato

Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58.

L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città. L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo.

Trattative. La “prova regina”

Dopo 29 anni restano tanti misteri. La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell’Utri, a giudizio di molti ha dato linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi. Tre poliziotti sono a processo con l’accusa di essere i tasselli di una complessa strategia di depistaggio delle indagini sull’eccidio di via D’Amelio. Ilda Boccassini, ex pm a Caltanissetta da ottobre ’92 a dicembre ’94, ha parlato di “prova regina inconfutabile circa il fatto che Scarantino stava dicendo delle sciocchezze: si era ancora in tempo per tornare indietro e fermarsi”. Non lo si fece.

L’appello del quarto processo per la strage di via D’Amelio ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a 10 anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Così come aveva fatto la Corte d’assise anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Vincenzo Scarantino.

I giudici ridimensionano il peso della trattativa nella decisione di compiere la strage. “Non sussiste in atti alcuna evidenza probatoria che consenta di ricollegare la ‘trattativa’ che si stava avviando, fra alcuni esponenti delle istituzioni ed altri rappresentanti dell’organizzazione criminale, con la deliberazione della strage di via D’Amelio”, scrivono nelle 377 pagine delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater.

“La strage di via d’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto ad una precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta dalla paura e dai fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il Maxiprocesso (nato anche, da una felice intuizione dei giudici Falcone e Borsellino)”.

Le ombre, però, restano: “Basti pensare alla ‘scomparsa misteriosa’ dell’agenda rossa del magistrato e alla ricomparsa della borsa stessa in circostanze non chiarite nell’ufficio del dott. Arnaldo La Barbera; alla presenza di uomini sconosciuti sul luogo del delitto e nell’immediatezza dello stesso (individuati come appartenenti ai servizi da parte di due degli agenti sentiti come testimoni)e di un uomo estraneo a cosa nostra al momento della consegna dell’autovettura Fiat 126 da parte di Gaspare Spatuzza agli uomini incaricati di provvedere al successivo caricamento della stessa di esplosivo; alla vicenda Mutolo e all’interruzione del suo interrogatorio e al successivo incontro da parte del giudice Borsellino con il dottore Bruno Contrada; all’anomalia del coinvolgimento del Sisde nelle indagini; alla vicenda del falso pentimento di Vincenzo Scarantino e del falso strumentale delle dichiarazioni di Francesco Andriotta”.

Nuove dichiarazioni fatte di recente da Maurizio Avola, che ha tra l’altro affermato di avere partecipato alla fase esecutiva della strage di Via D’Amelio, insieme a Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Aldo Ercolano e altri. Avola è stato smentito dal procuratore di caltanissetta, Gabriele Paci: gli accertamenti disposti dalla procura, finalizzati a vagliare l’attendibilità di dichiarazioni riguardanti una vicenda “ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie…non hanno allo stato trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità”, ha affermato il magistrato.

Avola, ha aggiunto Paci, era a Catania “addirittura con un braccio ingessato, nella mattinata precedente il giorno della strage, là dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore egli, giunto a Palermo nel pomeriggio del venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di una abitazione di una abitazione sita nei pressi del garage di via Vaillasevaglios, pronto, su ordine di Giuseppe Graviano, a imbottire di esplosivo la Fiat 126 poi utilizzata come autobomba”.

Nel luglio dello scorso anno si è chiuso in Corte d’Assise d’Appello a Caltanissetta, il Falcone bis: sono stati condannati i boss Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Lorenzo Tinnirello. Vittorio Tutino è stato assolto, come accaduto in primo grado. Per l’accusa, il boss palermitano di Cosa nostra Salvo Madonia è stato uno dei mandanti della strage, mentre gli altri sarebbero stati coinvolti nella fase esecutiva dell’attentato.

Nel corso del processo, alcuni collaboratori di giustizia hanno detto che “oltre a dovere uccidere il giudice Giovanni Falcone, si dovevano eliminare Maurizio Costanzo, Michele Santoro e Pippo Baudo per allontanare l’attenzione dalla Sicilia e creare un certo allarme nel centro Italia”. Ognuno “aveva un compito ben preciso e Messina Denaro diede 5 milioni di lire ciascuno per quella trasferta. A un certo punto arrivò l’ordine di tornare in Sicilia”.

E’ attualmente in corso in primo grado il processo sul presunto depistaggio delle indagini successive alla strage di via d’Amelio. Imputati sono tre poliziotti, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. è finita archiviata, invece, l’indagine a carico di alcuni magistrati sulla presunta manipolazione di Scarantino.

L’ultimo padrino

L’ultimo padrino è Matteo Messina Denaro. A ottobre dello scorso anno la Corte d’Assise di Caltanissetta lo ha condannato all’ergastolo, riconoscendolo tra i mandanti delle stragi del 1992 di Capaci e via d’Amelio. Messina Denaro prese parte a una riunione della commissione di Cosa nostra alla fine del ’91 nella sua Castelvetrano, in cui Riina diede il via alla strategia stragista. Il capomafia, inoltre, inviò a Roma, su ordine di Riina, diversi killer per uccidere Falcone nei primi mesi del ’92.

“Prima di consegnarsi in carcere il 1 febbraio, lo storico boss Mariano Agate lasciò le chiavi di un appartamento utilizzato da altri boss durante la missione romana del ’92 in cui doveva morire Giovanni Falcone”, ha detto Paci. Il piano, per una serie di ragioni, venne rinviato. Avrebbe avuto successo solo qualche mese dopo, il 23 maggio dello stesso anno.

Agi

 

 

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