Intervista a Stefania Giannini, ex ministro dell’Istruzione, oggi vicedirettrice generale dell’Unesco per l’Educazione. ““Alcuni Paesi hanno capito subito che la riapertura delle scuole era una priorità assoluta, altri hanno fatto scelte diverse”
Nel febbraio di due anni fa, l’Italia decideva di chiudere le scuole, come prima, urgente misura contro quella che si stava configurando come una pericolosa epidemia, con i primi tragici casi a Codogno e in Veneto. Da allora, analoghi provvedimenti sono stati decisi a diverse riprese in 190 Paesi in tutto il mondo, coinvolgendo un miliardo e 600 milioni di allievi, dalla scuola per l’infanzia all’Università, ovvero il 92% dell’intera popolazione studentesca mondiale. Fin da subito, l’Unesco ha cominciato a raccogliere e mettere a disposizione i dati sull’impatto che la pandemia ha avuto sull’educazione, e a lanciare l’allarme.
“La buona notizia – ha spiegato in un’intervista all’Agi la vicedirettrice generale dell’Unesco per l’Educazione, Stefania Giannini – è che siamo stati ascoltati e ora tenere le scuole aperte è la priorità per quasi tutti i Paesi”. Parlando dal suo ufficio di Parigi, al sesto piano della sede dell’organismo delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura a pochi passi dall’Ecole militaire e dalla Tour Eiffel, l’ex ministro dell’Istruzione ed ex senatrice di Scelta civica non nega le difficoltà create a livello mondiale dalla pandemia ma parla anche dell’opportunità di una trasformazione.
Quando è scattato l’allarme dell’Unesco?
“Cominciammo a monitorare il processo fin dall’inizio: l’Italia è stato il primo Paese occidentale ad essere colpito duramente dalla pandemia, e quindi fra i primi a chiudere le scuole: ma la scelta politica e tecnica di chiudere le scuole come prima misura per affrontare la pandemia sanitaria è ahimé stata condivisa da 190 Paesi al picco della crisi, con un impatto sulla popolazione studentesca di 1 miliardo e seicento milioni di studenti, circa il 92%”.
E quando si è capito che le conseguenze negative della scelta erano superiori ai benefici?
“Alcuni Paesi hanno capito subito che la riapertura delle scuole era una priorità assoluta, altri hanno fatto scelte diverse, ma la nostra direttrice (Audrey Azoulay, ndr) ha fatto appello a tenere aperte le scuole fin dall’aprile del 2020. I dati di oggi sono più positivi, e anche quando nelle scorse settimane la variante Omicron ha di nuovo creato una situazione di disagio per i ministri, la reazione è stata molto diversa e tenere le scuole aperte è ora una priorità che non si discute. Vale per l’Italia, in generale per l’Europa ma anche per altre regioni del mondo che nelle stagioni precedenti avevano scelto la chiusura delle scuole come strumento efficace dal punto di vista sanitario”.
Per quanto tempo sono state chiuse le scuole nel mondo? E in Italia?
“La media globale è stata di 20 settimane di chiusura totale e 20 di parziale. In Italia invece le scuole sono state chiuse completamente per 13 settimane e parzialmente per 24: sopra la media europea ma non male nel confronto mondiale. La buona notizia è che la lezione è stata appresa e anche l’Italia fa parte del gruppo di Paesi che considera una priorità tenere aperte le scuole, nonostante le contestazioni, soprattutto per la difficoltà di applicare i protocolli sanitari. Non è per promuovere la nostra organizzazione, ma l’Unesco ha giocato un ruolo decisivo, da quando per prima ha messo a disposizione i dati e i numeri sull’impatto delle chiusure. La cifra di un miliardo e seicento mila studenti coinvolti scritta nero su bianco ha colpito tutto il mondo”.
La Dad è sotto processo per aver accentuato le diseguaglianze sociali in tempo di pandemia ma al tempo stesso ha permesso una certa continuità dell’attività didattica. Che cosa ne pensa?
“Quello che ho notato da questo osservatorio globale è stata una precoce polarizzazione in Italia fra i difensori del digital learning, o didattica a distanza (dad), e i suoi acerrimi nemici, ma mi pare che sia stata superata dai fatti. E’ indubbio che l’insegnamento a distanza come sostituto radicale di una scuola in presenza completamente chiusa ha effetti negativi enormi e indiscussi. Il primo è proprio quello di amplificare le diseguaglianze sociali, mettendo i bambini che hanno un background familiare e strumenti di supporto meno robusti in condizioni di svantaggio. Oltretutto molto spesso lo erano già prima. Come Unesco lo abbiamo detto subito ma non abbiamo voluto fare campagna contro la tecnologia, che ha assicurato la continuità didattica: senza piattaforme e gli strumenti ibridi messi in atto durante la pandemia, ci sarebbe stato un deficit educativo ancora più sproporzionato e forse sarebbe stato irrecuperabile”.
Quali sono stati i danni più gravi?
“Abbiamo detto, e lo stiamo misurando con i dati, che nei Paesi più poveri, soprattutto nell’Africa subsahariana, le conseguenze sull’educazione delle bambine è stata enormemente più alta. In un contesto già complesso, c’è stata un’esplosione di gravidanze precoci, un fenomeno già presente ma che ora è esploso: in Kenya sono aumentate del 65%. La chiusura prolungata delle scuole in quei Paesi crea condizioni sociali di contesto che esaltano problemi già esistenti. E poi abbiamo visto quello che tecnicamente si chiama learning loss, la perdita di qualità dell’insegnamento. A causa dell’interruzione prolungata della didattica normale, avremo a partire da quest’anno accademico 100 milioni di bambini in più sotto la soglia della cosiddetta “proficiency”, ovvero la capacità di leggere e capire un testo molto semplice. Erano già 420 milioni, ma l’aumento è significativo”.
E quali sono gli aspetti da salvare della DAD?
“Ha consentito di mantenere il contatto con gli studenti, permettendo agli insegnanti di restare in una classe virtuale: è un merito, va riconosciuto. Il futuro è la valorizzazione della tecnologia al servizio di un modello educativo che tenga conto della componente socio emotiva dell’insegnamento e sostenga gli insegnanti, formandoli. Il modello futuro sarà il cosiddetto Hybrid learning, un modello misto che privilegia la scuola in presenza perché è un luogo non solo di apprendimento ma soprattutto di interazione e socializzazione, supporto emotivo e crescita umana”.
Quali sono le indicazioni per il futuro dell’educazione?
“Da questa crisi usciamo con la consapevolezza che il sistema va cambiato e deve diventare resiliente, ma non solo per affrontare nuovi shock o emergenze. In molti casi il modello didattico è ancora lontano da quello che accade nel mondo come processo di apprendimento. La crisi deve essere l’opportunità per avviare una trasformazione. Per ridisegnare il futuro, è fondamentale ripensare l’educazione secondo un nuovo contratto sociale, rimettendo in gioco i processi costituenti a partire dalla valorizzazione del ruolo degli insegnanti, che sono state figure professionali essenziali della crisi, come i medici all’ospedale. Ma anche mettendo l’educazione al centro di un nuovo patto con l’ambiente e il pianeta, creando una nuova relazione con la tecnologia: non è demonizzando la DAD che si inventa un futuro adeguato per i sistemi educativi. Questi due anni sono stati un po’ un laboratorio a cielo aperto”.
Che cosa devono fare i governi?
“Abbiamo indicato una serie di condizioni precise, ma la prima è la volontà politica di mettere al top dell’agenda il settore dell’educazione, con investimenti corrispondenti. Abbiamo fatto un’interessante indagine sugli stimulus packages e i piani di recovery e, ahimè, è emerso che in media nei Paesi sviluppati di tutti questi soldi messi a disposizione per la ripresa solo il 3% è stato destinato all’educazione, che scende all’1% nei Paesi in via di sviluppo. Unesco punta a rilanciare l’agenda per l’educazione, con in mente gli obiettivi di sviluppo sostenibili fissati dall’Onu per il 2030, e in particolare quello di un’educazione inclusiva per tutti. Per ottenerlo, servono finanziamenti perché l’educazione sia capace di trasformare la società post-Covid”.