Poliomielite, nuovi casi a Londra e New York: dobbiamo preoccuparci?

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Poliomielite, nuovi casi a Londra e New York: dobbiamo preoccuparci? – Le recenti segnalazioni di polio in alcuni Paesi, che da tempo l’avevano debellata grazie al vaccino, riportano il pensiero alle estati di paura del passato. Tutto quello che c’è da sapere, per non abbassare la guardia.

Dopo Covid e vaiolo delle scimmie, sta tornando la poliomielite? Una preoccupazione legittima, almeno leggendo gli ultimi fatti di cronaca provenienti dal mondo. L’ultimo in ordine di tempo: il caso di un giovane uomo della Contea di Rockland, New York, paralizzato a causa della polio. Un virus che negli Stati Uniti era scomparso dal 1979, e del quale non si registravano neppure casi di importazione dal 2013. Il caso statunitense è solo l’ultimo di una lista che pare allungarsi: a novembre 2021 un focolaio ha colpito l’Ucraina, a febbraio 2022 la malattia si è presentata in Malawi, seguito dal Mozambico a maggio (facendo temere per lo status «polio free» dell’Africa, conquistato solo nel 2020), a marzo è spuntata in Israele, mentre a giugno il poliovirus è stato identificato in campioni fognari di Londra. Tutti Paesi che hanno eliminato la poliomielite da anni, qualcuno da decenni. Cosa sta succedendo? Dobbiamo preoccuparci?

Una malattia non ancora debellata

Molti avevano dimenticato l’esistenza della polio, una malattia che ha tormentato le estati dei Paesi occidentali soprattutto tra gli anni Trenta e Sessanta e che non è stata ancora del tutto cancellata: a oggi rimane endemica — ovvero presente in maniera costante — in Afghanistan e Pakistan, dove dall’inizio dell’anno ha colpito 13 persone. Si tratta di un’infezione causata da tre ceppi di poliovirus, 1, 2 e 3 (gli ultimi due fortunatamente sono stati del tutto eradicati da pochi anni), che si trasmettono per via oro-fecale. Nella stragrande maggioranza dei casi la malattia decorre in maniera asintomatica o con sintomi tipici di una normale gastroenterite, mentre nell’1% circa dei pazienti il virus riesce a invadere il sistema nervoso e a provocare paralisi di diverso grado, talvolta estese a tutto il corpo e potenzialmente letali. Chi ha qualche anno in più ricorderà i tutori che venivano indossati da chi riportava una paralisi permanente a gambe o braccia, o l’inquietante polmone d’acciaio in cui era confinato chi a causa della paralisi non poteva più neanche respirare in maniera autonoma. Negli anni la poliomielite è stata messa all’angolo: dai 350mila casi registrati in 125 Paesi del mondo nel 1988 siamo passati nel 2021 a 6 casi in tutto. Per capire come sia stato possibile, e allo stesso tempo cosa stia succedendo in questi ultimi mesi, è necessario volgere lo sguardo ai due diversi vaccini ancora oggi utilizzati contro i poliovirus.

Il vaccino orale: due facce della medaglia

Il drastico calo nell’incidenza dell’infezione è un traguardo che dobbiamo all’OPV, il vaccino messo a punto da Albert Sabin nel 1959. È un vaccino a virus attenuato, cioè vivo ma indebolito al punto da non poter causare la malattia: preso per bocca (tramite gocce o, storicamente, con l’iconica zolletta di zucchero), questo è l’unico vaccino che conferisce immunità intestinale alla polio. Quello che potrebbe apparire solo un tecnicismo è in realtà un dettaglio sostanziale: immunizzando le mucose intestinali non si prevengono solo gli effetti nefasti della malattia, ma si garantisce anche la protezione dal contagio tout court.

Ecco perché nei Paesi in cui il rischio di infezione da poliovirus è ancora alto è necessario vaccinare con OPV: questa formulazione, se somministrata con ampie coperture, è l’unica in grado di far gradualmente sparire il virus dalla circolazione. L’OPV è un preparato estremamente efficace, che però in rarissimi casi (si stima 2-4 casi su 1 milione di vaccinati) vede il virus vaccinale nel nostro intestino accumulare mutazioni che gli permettono di riacquistare l’originale aggressività, e quindi di provocare la malattia. Una forma di poliomielite che nei suoi esiti è analoga a quella originale, ma di fatto causata dal virus vaccinale.

Come è stato possibile impiegare un vaccino con un simile effetto avverso, per quando estremamente raro? Il vaccino Sabin era stato concepito per vaccinare a tappeto, in un momento storico in cui la polio imperversava: se tutti fossero stati immunizzati contemporaneamente, i rari casi di polio vaccinale non avrebbero trovato terreno fertile per diffondersi e non si sarebbero generati veri e propri focolai. Purtroppo, soprattutto nelle aree geografiche più povere o devastate da guerre, non è andata così. Ecco quindi che, laddove le coperture vaccinali cadono al di sotto della soglia critica, aumenta il rischio non solo di contrarre la polio selvaggia (quella originale), come è successo in Malawi e Mozambico, ma anche quella vaccinale, come accaduto in Ucraina, Israele, Londra e New York.

Insomma, non possiamo smettere di utilizzare OPV se vogliamo arrivare a eradicare la polio per sempre, e se vogliamo tenere sotto controllo i casi di polio vaccinali generati dallo stesso OPV. Una situazione paradossale, dalla quale potremo uscire grazie alla messa a punto di una nuova versione del vaccino orale (nOPV), varata ufficialmente nel 2021 con la stessa procedura d’emergenza utilizzata per i vaccini anti Covid. Si tratta di una versione di OPV modificata per rendere il rischio di polio vaccinale infinitesimale, pur mantenendo la capacità di proteggere dal contagio. Una soluzione che punta a eliminare il tallone d’Achille di OPV conservandone i vantaggi, tanto che i Paesi in cui ci si immunizza ancora con il vaccino orale stanno gradualmente sostituendo la vecchia formulazione con nOPV.

Come ci proteggiamo in Italia?

Nel nostro Paese l’ultimo caso autoctono di poliomielite è stato registrato nel 1982 e l’intera Europa è stata dichiarata «polio free» nel 2002. Da quell’anno in Italia, come in tutti i Paesi che hanno debellato da tempo i poliovirus (tra cui quelli finiti ai recenti onori della cronaca), non si vaccina più con OPV: il rischio rarissimo di polio da vaccino supererebbe i benefici. Per questo motivo si è passati al secondo tipo di immunizzazione antipolio, IPV: il vaccino sviluppato da Jonas Salk nel 1955, somministrato tramite iniezione intramuscolare e attualmente compreso nell’esavalente obbligatoria. È prodotto a partire da virus inattivato, cioè morto: non può quindi generare la malattia, neanche in rari casi come per OPV. Tuttavia, per quanto sia efficace nel prevenire gli effetti più gravi della polio (come la paralisi), IPV non è in grado di proteggere dal contagio: in altre parole, non può essere utilizzato per far scomparire la poliomielite ed è per questo somministrato solo nei Paesi che si siano già liberati dal virus – come vaccino di mantenimento.

In caso di emergenza

Torniamo all’attualità: quanto è successo in Israele, a New York e in altri Paesi potrebbe dunque succedere anche da noi? Difficile fare previsioni, ma fino a che la malattia non sarà del tutto eradicata si tratta di una eventualità non impossibile . Se c’è però una cosa che la pandemia da Covid ci ha insegnato è l’importanza di farsi trovare preparati. Per quanto riguarda la poliomielite, in linea con i requisiti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), da decenni in Italia sono attivi due sistemi di sorveglianza gestiti dal Ministero della Salute in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e le singole Regioni: il primo sistema comporta la segnalazione di ogni caso di paralisi flaccida acuta, in modo che si possa tempestivamente controllare se sia dovuto a un’infezione da poliovirus ed eventualmente contenere i contagi; il secondo ricerca attivamente la presenza di poliovirus nelle acque reflue (proprio come è stato fatto a Londra), così da poter individuare anche casi di infezione asintomatica, che rappresentano peraltro la maggioranza dei contagi. Non solo. Nel marzo 2019 il Ministero della Salute ha stilato il «Piano nazionale di preparazione e di risposta a una epidemia di poliomielite», per dettare le specifiche attività di tracciamento, contenimento e comunicazione (definite a seconda del ceppo selvaggio o vaccinale e dall’entità del rischio) da intraprendere a livello locale e nazionale nel caso in cui i sistemi di sorveglianza portassero alla luce un caso di positività.

Che cosa possiamo fare noi

Niente panico, dunque: anche nel malaugurato caso in cui in Italia dovesse verificarsi un caso di polio, avremmo tutti gli strumenti per rispondere adeguatamente a questa situazione. Ma cosa può fare ogni cittadino per evitare di incorrere in una simile circostanza? In primis è importante osservare le norme igieniche che conosciamo ormai bene, soprattutto per quanto riguarda l’igiene delle mani. Ma soprattutto, è fondamentale verificare se noi e i nostri figli siamo stati immunizzati per la polio (se necessario chiedendo all’Asl o al Centro vaccinale di riferimento) ed eventualmente mettersi in pari con le vaccinazioni, da valutare insieme al medico anche nel caso in cui si sia in procinto di viaggiare in Paesi a rischio. Un’accortezza tanto più importante dopo l’avvento di Covid: durante la pandemia in Italia le coperture medie a 24 mesi d’età con IPV sono calate al 94%, un punto percentuale sotto la soglia di sicurezza raccomandata dall’Oms. Uno degli insegnamenti che la pandemia ci ha lasciato è che i comportamenti del singolo sono importanti e riverberano sulla società intera. I vaccini ci hanno concesso l’opportunità di dimenticarci della poliomielite in Italia: non caliamo la guardia e insistiamo a proteggerci, nell’attesa che l’eradicazione metta definitivamente la parola fine a questa devastante malattia.

* Supervisore scientifico Fondazione Umberto Veronesi e autrice de «La malattia da 10 centesimi. Storia della polio e di come ha cambiato la nostra società» (Codice edizioni)

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