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Iran e Turchia, diritti umani violati in tempo di epidemia

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Il Coronavirus ha fermato il mondo, ma non le violazioni dei diritti umani. Da questo punto di vista, il paese che è rimasto in cima alle cronache internazionali per i suoi abusi, malgrado sia stato esso stesso travolto dal contagio, è la Turchia di Erdogan. Lo scoppio dell’emergenza sanitaria (oltre 90 mila contagiati e 3,850 decessi finora) ha riproposto la questione del sovraffollamento delle carceri, riempite fino all’orlo con l’arresto di decine di migliaia di prigionieri politici, a partire dal presunto golpe fallito dai “gulenisti” nel luglio 2016. Quale migliore occasione dell’epidemia per mostrare benevolenza verso i propri oppositori, concedendogli l’amnistia in segno di riconciliazione nazionale?

La legge sull’”esecuzione penale”, invece, approvata dal parlamento con l’avallo della Corte costituzionale, ha consentito l’uscita dal carcere di ben 90 mila criminali autentici, anche pluriomicidi (su una popolazione carceraria totale di circa 300 mila persone), ma non dei dissidenti, che Erdogan vuole restino in cattività. Molti di questi sono da tempo in attesa di processo per accuse di terrorismo o crimini contro lo stato “senza prove” nei loro confronti, come ha ricordato Human Rights Watch in un recente editoriale (Turkey Should Protect All Prisoners from Pandemic, 23 marzo), dove viene invocato il diritto alla protezione dalla pandemia per tutti i detenuti. Ma per Erdogan, la sicurezza del proprio regime viene sempre prima della giustizia.

L’esclusione dall’amnistia ha così inferto un duro colpo alla speranza dei prigionieri politici di rivedere presto la luce, inducendone alcuni al suicidio (cinque finora, riferisce Mariano Giustino, il corrispondente di Radio Radicale da Ankara). Mentre nelle celle svuotate di delinquenti vengono gettati nuovi intellettuali, giornalisti e blogger che hanno osato criticare pubblicamente il sultano-presidente-dittatore o il governo nell’ambito della crisi del Coronavirus, come denunciato da Amnesty International in occasione della giornata mondiale della libertà di stampa. Su questi, e su altri che non sono (ancora) stati arrestati, pesano denunce penali per aver insultato Erdogan e per averne danneggiato la reputazione, oppure, più genericamente, per incitamento all’odio e all’inimicizia.

Un copione simile a quello turco sta andando in scena in Iran, a conferma della comunanza di mentalità e prassi tra i due regimi che affondano le proprie radici nella Fratellanza Musulmana. Per limitare i rischi di trasmissione del contagio nelle carceri, in un paese che è stato per settimane il secondo focolaio mondiale dopo la Cina (oltre 103 mila gli infetti e 6,400 i morti, ma le stime ufficiali sono ampiamente inattendibili), il regime khomeinista ha pensato bene di mettere a piede libero in via temporanea oltre 50 mila detenuti, escludendo naturalmente i prigionieri politici. Ciò, tuttavia, non è bastato a impedire che il Coronavirus si diffondesse ugualmente, andando a colpire, tra i “nemici” del regime khomeinista, l’ambientalista Sam Rajabi e l’influencer Fatemeh Khishvand (alias Sam Rajabi, per gli utenti di Istagram).

Come sottolineato dall’attivista Nazanin Boniadi sul Washington Post (Why Iran’s coronavirus pandemic is also a crisis of human rights, 23 aprile), a trovarsi in una condizione di particolare esposizione alla malattia sono le donne del braccio femminile del famigerato carcere di Evin a Teheran. Tra queste, spicca Nasrin Sotoudeh, l’avvocatessa per i diritti umani condannata a 38 anni di carcere e 146 frustate per la sua battaglia contro il velo obbligatorio. Offrendo ancora una volta un grande esempio di dedizione e coraggio, Nasrin ha lanciato uno sciopero della fame, appellandosi al regime khomeinista per la liberazione di tutti i prigionieri politici.

Il grido di Nasrin, l’ennesimo, è però rimasto e rimarrà inascoltato. Anzi, le porte del carcere si sono già riaperte per quei prigionieri per presunto spionaggio capitati casualmente tra i detenuti che hanno beneficiato di qualche settimana di libertà vigilata poiché con condanne inferiori a cinque anni. Così è stato per l’iraniana Aras Amiri, ex funzionario del British Council, e così molto probabilmente sarà per Nazanin Zaghari-Ratcliffe, la cittadina britannico-iraniana madre di due figli, di cui il marito Richard continua a richiedere incessantemente la definitiva liberazione.

La guida suprema Ali Khamenei e i pasdaran della rivoluzione islamista, al pari di Erdogan e dell’apparato del suo partito fondamentalista (AKP), non faranno concessioni ai loro “nemici” politici. Allo stesso tempo, hanno confermato di non gradire opposizioni di nessun genere, reprimendo nel sangue la protesta scoppiata in diverse prigioni del paese a causa della precarietà delle condizioni sanitarie di fronte al Coronavirus, malgrado la riduzione dei detenuti voluta dal presidente Hassan Rouhani: secondo Amnesty International, le vittime sarebbero 36.

Il Coronavirus ha offerto al regime khomeinista anche l’opportunità di rafforzare ulteriormente la censura e il controllo sull’informazione. Guai a contraddire la narrativa di regime sull’emergenza sanitaria: lo sanno bene i medici e gli esperti che stanno subendo minacce e intimidazioni affinché rinuncino a dire la verità. A proposito di verità, “Medici Senza Frontiere” sarebbe stato un testimone alquanto scomodo, meglio dunque espellerne il personale. Mentre è vietato parlare delle accuse rivolte alla compagnia aerea dei pasdaran, Mahan Air, per aver diffuso la pandemia in tutto il Medio Oriente, come riporta la stampa a livello internazionale.

In Turchia e Iran, la piaga del Coronavirus è andata così ad aggiungersi a quella dei regimi fondamentalisti. Per le genti dei due paesi l’oppressione continua, in un mondo ancora più distratto e indifferente di prima.

Di Souad Sbai per La Nuova Bussola Quotidiana

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