Liste al via, partiti di fronte a scelte difficili

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Antonfrancesco Venturini

I partiti hanno depositato le loro liste e molti, anche big di razza, sono rimasti al palo vista la drastica riduzione dei seggi in Parlamento voluta dalla legge costituzionale approvata in via definitiva dalla Camera l’8 ottobre 2019, con una maggioranza bulgara: favorevoli 553, contrari 14, astenuti 2.

In conseguenza di tale riforma, che ha modificato gli articoli 56 e 57 della costituzione, il prossimo Parlamento sarà composto da soli 400 deputati, al posto dei 630 attuali, e da 200 senatori, al posto dei 315 attuali.
Il nostro Paese si è, quindi, allineato alla maggior parte dei grandi Stati Europei, infatti la Germania ha circa 700 parlamentari, la Francia circa 600 e la Gran Bretagna 650.
Detto taglio ed i sondaggi non proprio positivi di molti partiti hanno comportato per i centri decisionali la necessità di prevedere moltissimi sacrifici, l’unica formazione che, stando alle attuali tendenze, dovrebbe duplicare se non triplicare la propria presenza parlamentare è Fratelli d’Italia.

In tutto ciò la legge elettorale non ha facilitato certo le cose. Sarebbe stato opportuno, anzi necessario, modificarla al fine di rendere il prossimo Parlamento più rappresentativo e, pertanto, più autorevole.
Invece siamo rimasti con questo complicato sistema in parte maggioritario ed in parte proporzionale, che rende molto difficile il far uscire dal voto una maggioranza chiara, con le conseguenze che abbiamo ben visto nella legislatura che ci accingiamo a lasciare.
Il concentrare sulle dirigenze dei singoli partiti la decisione su chi candidare e dove, con un sistema di liste bloccate che lascia pochissimi spazi (se non nessuno) di scelta agli elettori, non fa che allontanare questi ultimi dalle urne, potendo scegliere solamente un simbolo e non certo un candidato, di cui molti non si cureranno neppure di sapere il nome. Gli unici collegi che sono rimasti con le preferenze sono quelli esteri e lì la sfida tra i candidati si fa più interessante, ma ne parleremo nelle prossime settimane.

In questo sistema decisamente poco democratico, la vera campagna elettorale sarà fatta dai leader, così come nella loro responsabilità rimane la scelta su chi mettere in lista, e, senza che sia necessario che faccia nomi, di paracadutati, con poca o nessuna rappresentatività territoriale o esperienza politica, se ne sono visti, come, peraltro, sempre da quando esistono le liste bloccate.

Certo è facile dall’esterno criticare, molto più difficile è per le dirigenze che ne abbiano la responsabilità cercare di comporre un puzzle complicato che coniughi rappresentanza territoriale e delle varie compagini sociali, capacità tecnica e politica, affidabilità. I posti sono quelli che sono ed anche il leader più accorto ed intelletualmente onesto deve fare delle scelte e chiedere sacrifici. Lo ha dovuto fare anche Giorgia Meloni, nonostante i favorevoli pronostici di aumento considerevole dei propri parlamentari.
Come ho detto la vera campagna la faranno i leader sui grandi temi e sulla loro credibilità, e mi auguro che nelle prossime settimane ci si concentri più sui programmi realizzabili, piuttosto che sul demonizzare l’avversario, insomma una comunicazione “per qualcosa” e non “contro qualcuno”.

Il compito dei singoli candidati, invece, ritengo che sarà soprattutto quello di combattere l’astensionismo, che rappresenta il vero pericolo di queste elezioni estive e repentine, insomma convincere le persone, casa per casa, ad andare a votare. E proprio riguardo a questo compito vedremo quanto le scelte delle dirigenze siano state giuste, soprattutto quelle di centro destra, dato che storicamente proprio questo tipo di elettorato è quello meno strutturato e più tiepido verso la cabina elettorale.

Spero, infine, che questa sia l’ultima volta che si vada al voto con questa devastante legge elettorale e che il nuovo Parlamento si ponga tra i suoi principali obiettivi una riforma seria ed organica che avvicini di più i cittadini alla politica, che è “la forma più alta di carità”, insuperabile frase di Pio XI, ripresa da Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco.

Di Antonfrancesco Venturini

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