Due giorni fa, sabato 13 novembre, è stato divulgato l’ultimo rapporto sugli “Omicidi volontari” del Servizio analisi criminale della Direzione centrale della polizia criminale. Ha condotto un’indagine sul femminicidio in Italia e come si può immaginare, mentre ci avviciniamo al 25 novembre, Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, i dati sono allarmanti. Sui 247 omicidi compiuti tra il 1° gennaio ed il 7 novembre di quest’anno, 103 casi hanno avuto come vittime delle donne. In particolare ne è stata uccisa una ogni tre giorni, riporta l’Agi.
Ottantasette donne sono state uccise in ambito familiare o in quello che avrebbe dovuto essere affettivo. Sessanta dal partner o ex partner (che troppo frequentemente non accettano di essere lasciati). Rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso gli assassinii in generale sono diminuiti del 2% (nel 2020 sono stati 251). Per quanto riguarda le donne, invece, ne sono state uccise di più, perché l’anno scorso sono state 97 (+6%).
“I delitti commessi in ambito familiare/affettivo mostrano una leggera crescita (+2%), passando da 124 a 127 – spiega l’Agenzia Giornalistica Italiana – le vittime di genere femminile, da 83 nel periodo 1 gennaio -7 novembre 2020, arrivano a 87 nell’analogo periodo dell’anno in corso (+5%). Stesso incremento (+5%) per le donne vittime di partner o ex che passano da 57 a 60.
In termini assoluti, le donne vittime di omicidi sono state 141 nel 2018, 111 nel 2019 e 116 nel 2020 ma la percentuale di vittime donne sul totale degli omicidi volontari è salita dal 35% del 2019 al 40,5% del 2020; quest’anno, fino al 7 novembre, risulta in ulteriore ascesa (41,7%).
Ad agosto era stato diffuso un report della direzione centrale della Polizia criminale del dipartimento della Pubblica sicurezza sul primo semestre del 2021, dove emergevano dettagli anche sulla nazionalità di vittime e carnefici. L’83% di vittime italiane è stata uccisa da autori italiani, mentre solo il 5% da stranieri; nel restante 12% dei casi l’autore non è stato ancora individuato. Le vittime straniere, invece, nel 91% dei casi hanno trovato la morte per mano di cittadini stranieri, nel 9% di italiani.
In ambito familiare o affettivo, la percentuale di donne italiane uccise da connazionali raggiunge il 97%, mentre le donne straniere sono state uccise, nella totalità dei casi, da stranieri.”
A proposito di femminicidio, con l’aggravante della “giustificazione” culturale e religiosa non possiamo non ricordare la 18enne di origine pakistana Saman Abbas, il cui assassinio a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, il 30 aprile scorso è ormai certo, anche se il corpo non è ancora stato trovato.
In questo caso sono emersi dubbi anche sull’operato della casa famiglia dove la ragazza aveva trovato rifugio, dopo aver rifiutato un matrimonio forzato con un cugino (da notare che allora la madre di Saman, Nazia Shaheen, poi fuggita con il marito Shabbar in Pakistan, si era angosciata fino alle lacrime non tanto era sembrato per la decisione che i servizi sociali avevano preso per la figlia, ma perché non avrebbero saputo come giustificare la cosa con i parenti nel Paese d’origine, aveva sottolineato “Il resto del Carlino”).
La 18enne (maggiorenne, quindi) era voluta assolutamente tornare dai genitori l’11 aprile scorso per riprendere i propri documenti, incluso il passaporto, che erano nelle mani del padre. Il 20 i servizi sociali, diretti dalla sindaca Elena Carletti, avevano avvertito un maresciallo dei carabinieri, Pasquale Lufrano, che conosceva già Saman, perché andasse a controllare la situazione a casa sua. Il militare era riuscito a portare la 18enne in caserma per convincerla a tornare nella casa famiglia, ma lei era determinata a riprendere il passaporto: “Voleva essere libera. E quel documento avrebbe potuto consentirle, lei sperava, di lavorare”, aveva spiegato Lufrano. Il giorno successivo questi aveva avvisato i servizi sociali per trovare un altro luogo per ospitare la ragazza, dato che se ne era voluta andare da quello precedente, e si era recato dal pubblico ministero per ottenere un decreto di perquisizione dell’abitazione della famiglia di Saman. Alla fine gli assistenti sociali si erano presentati lì il 3 maggio, ma ormai la 18enne non c’era più: il femminicidio era già avvenuto. Da allora Lufrano ha coordinato le ricerche e comunque ha maturato la certezza di aver “fatto tutto il possibile”.
Chi non l’ha fatto? Com’è possibile che gente da anni in Italia, gente che talvolta ha fatto nascere e crescere i figli qui, “ragioni” come se non ci vivesse; impari nemmeno la nostra lingua (magari perché è una donna segregata in casa) e compia delitti che anche nel Paese d’origine potrebbero essere condannati com’è giusto che sia? Un testimone vicino alla famiglia Abbas che era voluto rimanere anonimo, aveva raccontato a “Quarta Repubblica” di Nicola Porro che il padre di Saman avrebbe dato la colpa allo “Stato Italiano”, perciò che era successo alla figlia; se lei “non credeva più a Dio e al Profeta”, sarebbero state le testuali parole dell’uomo. Poi l’attacco alla polizia: “Ci porta via le figlie, facendo loro il lavaggio del cervello e portandole verso il cristianesimo e le volgarità”.
La pensavano certamente così anche i padri, le madri ed altri familiari di Hina Saleem, a sua volta di origine pakistana, vittima di femminicidio a 20 anni a Zanano di Sarezzo, in provincia di Brescia, l’11 agosto 2006, e della 18enne di origine marocchina Sanaa Dafani, uccisa a Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone, il 15 settembre 2009, perché erano fidanzate e convivevano con uomini italiani. Sono state sgozzate e sepolte con la testa rivolta verso la Mecca (ma ricordiamo che Hina aveva denunciato il padre per violenza sessuale e che il padre di Sanaa beveva alcolici).
Lo stesso pensiero retrogrado di cui abbiamo parlato qualche riga fa, deve essere stato condiviso dal marito e padre di Shahanaz Begum, 46 anni, e Nosheen, 20, la prima vittima di femminicidio a colpi di mattone (praticamente lapidata), perché voleva chiedere il divorzio ed aveva tentato di difendere la figlia (ferita a colpi di spranga) da un matrimonio forzato. E’ successo a Novi di Modena il 3 ottobre 2010.
Pensiamo ad un’altra tragica storia, quella di Rachida Radi, mamma 35enne di origine marocchina. Anche lei voleva divorziare dal marito violento che l’avrebbe uccisa. “In più” faceva volontariato in parrocchia e si era avvicinata al cattolicesimo. Questo femminicidio è avvenuto a Sorbolo a Levante di Brescello, in provincia di Reggio Emilia il 19 novembre del 2011.
Ad aggiungere una profonda tristezza al tutto, c’è il fatto che Rachida aveva dovuto attendere ben 50 giorni per avere degna sepoltura, come se non fosse “mai esistita”, perché nemmeno la Chiesa e la comunità cristiana sembravano volerla (per paura). Lo aveva denunciato Souad Sbai, presidente dell’ACMID – DONNA, nominata nel luglio scorso da Matteo Salvini responsabile del Dipartimento integrazione e rapporti con le comunità straniere presenti in Italia della Lega e più recentemente membro dell’Osservatorio per la Parità di Genere del Ministero della Cultura (MiC). Su Rachida aveva scritto articoli molto forti, per esempio quello intitolato “Rachida, il coraggio di una convertita (dimenticata”), per “La Nuova Bussola Quotidiana”. Concludeva dicendo che Rachida avrebbe dovuto essere considerata non “un’apostata” dell’islam, bensì una “Serva di Dio”.
Avrebbe potuto finire in tragedia anche la vicenda di una 14enne originaria del Bangladesh che vive ad Ostia. La notizia è stata riportata ieri anche da Al – Maghrebiya. La ragazzina, finita in ospedale per un pestaggio da parte del fratello 17enne alla presenza dei genitori, perché rifiutava un matrimonio forzato in Bangladesh, non voleva smettere di studiare ed indossare il velo integrale. A salvarla sono stati i carabinieri e lei ha denunciato la madre e il fratello per maltrattamenti e lesioni. Altri parenti sono indagati.
La giovane è stata giudicata guaribile in due settimane e portata in una casa famiglia, ma sempre che lei voglia rimanerci, la situazione è come sempre temporanea. E poi? Inevitabile pensare al femminicidio di Saman.
Di Alessandra Boga