La “Guerra dei vent’anni” perduta contro i jihadisti

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Quando Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa dell’amministrazione del presidente George W. Bush, ipotizzò che la guerra al terrorismo islamico sarebbe durata 20 anni, non immaginava certo che gli Stati Uniti e l’intero Occidente l’avrebbero perduta, sul campo di battaglia e sul piano politico e ideologico.

La caduta di Kabul, a Ferragosto di quest’anno, ha reso ancora più drammatica e grottesca la sconfitta di USA e NATO in Afghanistan, probabilmente inevitabile dopo gli accordi di Doha tra Washington e i talebani ma che certo nessuno prevedeva potesse vedere il trionfo degli insorti e il loro ingresso vittorioso a Kabul ancor prima che le truppe alleate terminassero il ritiro.

Se i simboli hanno un valore e soprattutto un impatto politico e mediatico, il trionfo dei talebani in Afghanistan ben rappresenta la vittoria delle forze jihadiste nella “guerra dei 20 anni” contro l’Occidente e molti dei leader talebani che nell’autunno 2001 dovettero fuggire di corsa in Pakistan incalzati dai bombardamenti americani, possono celebrare oggi i 20 anni dagli attacchi terroristici dell’11/9 comodamente insediati nei palazzi governativi di Kabul.

Le armate di USA e NATO non sono state sbaragliate sul campo di battaglia ma hanno semplicemente cessato di combattere ritirandosi dai fronti di guerra, prima in Iraq nel 2011 (dove tre anni dopo gli alleati sono tornati per fronteggiare l’ISIS) e poi in Afghanistan dal 2014 a oggi, per l’incapacità politica e sociale dell’Occidente di combattere guerre prolungate accettandone i costi in termini economici e di perdite di vite umane.

È inutile spendere miliardi per disporre di tecnologie belliche sofisticate e di una potenza senza precedenti se non si hanno valori, principi e interessi per i quali si ritenga necessario combattere.

Non si può vincere una guerra così lunga cambiando obiettivi, dottrina e strategia a ogni elezione presidenziale o di mid-term e il tentativo in atto oggi sulle due sponde del Nord Atlantico di spacciare per successo il disordinato ponte aereo attuato dall’aeroporto di Kabul col permesso dei talebani rende ancora più patetico l’approccio di Pentagono e NATO: pronti a tutto pur di evitare di affrontare un serio dibattito sulle lezioni apprese dalla guerra al terrorismo.

Un dibattito quanto mai necessario oggi che il trionfo talebano e il colpo messo a segno dalla branca afghana dell’Isis con la strage dell’aeroporto di Kabul hanno galvanizzato tutti i movimenti terroristici e insurrezionali islamici, incluso Hamas, Hezbollah, la galassia dei gruppi legati alla fratellanza Musulmana o al Califfato oltre alla stessa al-Qaeda, i cui rapporti con i talebani non sono mai mutati e restano anche oggi saldi. Anche per questo la cocente sconfitta di Kabul aumenta il rischio di nuovi attacchi terroristici contro USA ed Europa e del resto giova ricordare che una delle ragioni addotte per giustificare la nostra presenza militare in Afghanistan era quella di impegnare lontano da casa nostra le forze jihadiste.

Ragioni o pretesti rapidamente dimenticati, così come occorre ricordare che le potenze occidentali sono riuscite a sostenere le milizie jihadiste che hanno fatto cadere il regime di Gheddafi in Libia e hanno cercato di far crollare quello di Bashar Assad in Siria, salvato solo dal determinato intervento di una Russia che ha fatto di coerenza e pragmatismo una bandiera.

Milizie jihadiste i cui valori di riferimento sono gli stessi che hanno animato i terroristi che hanno seminato strage in Europa e negli Stati Uniti. Contraddizioni e autogol che non hanno certo cementato le motivazioni nella lotta al jihad.

Del resto il sostegno dell’amministrazione del presidente Barack Obama alle cosiddette “primavere arabe” ha contribuito non poco a generare preoccupazioni e sfiducia nei confronti degli USA che con cadenza sempre più serrata dagli anni ’70 non esitano ad abbandonare a sé stessi i propri alleati.

Al termine di 20 anni di guerra l’Occidente rischia quindi di venire percepito nel mondo come inaffidabile, debole e imbelle divenendo così anche più esposto e vulnerabile.

Di Gianandrea Gaiani

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui “Iraq-Afghanistan. Guerre di pace italiane” e “Immigrazione. La grande farsa umanitaria”. Dall’agosto 2018 al settembre 2019 ha ricoperto l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno.

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