Identità oh cara. Non può essere imposta ma deve seguire la traccia della sua storia

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Identità. Basta la parola, sentenziava un’antica pubblicità. Ed infatti d’identità ormai parlano tutti. Principi dal mantello ondeggiante al vento e dalla matita sguainata, invocano la pianificazione dell’identità dei luoghi, come segno di apertura e civiltà. Paladini dell’identità plurima come espressione della città plurale, ritengono che le politiche urbane debbano incidere fortemente sulla formazione delle identità urbane. Ricerca scientifica, dibattiti pubblici, politiche urbane tutti impegnati e a dimostrare quanto si possa e debba fare per costruire nuove identità per i luoghi. Up to date, direbbero gli anglofoni. Un esempio luminoso come un neon è il Centro Direzionale di Napoli. Su un tessuto urbano molto degradato e periferico rispetto al centro città, si impiantò un complesso edilizio grande, dal disegno potenzialmente all’avanguardia, fatto di edifici a torre e suddiviso in comparti, che solo dopo pochi anni dalla sua edificazione ha conosciuto degrado edilizio, lavorativo e insoddisfacente popolamento delle torri destinate alla residenza. Non si è prodotta alcuna identificazione tra le persone che vivevano la zona, L’identità storica non è uscita da questa innovazione urbanistica, rafforzata o evoluta. Nulla.

La verità è che nessuno può imporre un’identità ad un luogo. Essa nasce si consolida e si evolve in maniera spontanea. L’abilità degli urbanisti non è dunque quella di individuare un area dismessa e decidere quale identità donarle. Mica è il Monopoli, gente. Bisogna capire la direzione, la traiettoria dell’identità che si sta evolvendo ed aiutarne l’evoluzione, secondo il suo verso, nel migliore dei modi.

Il complesso edilizio napoletano rappresenta solo una costosa operazione immobiliare che le politiche pubbliche avevano permesso. Dopo una ventata d’entusiasmo iniziale, l’isola che era stata creata, in un mare con cui non aveva nulla da condividere, rimase distaccata dal tessuto lavorativo e sociale. Oggi al posto delle quotazioni immobiliari da capogiro che si erano prospettate, si è virato sui meno entusiasmanti valori di una buona periferia. Processo identitario innescato non pervenuto alla gente del luogo, che frequenta il posto, come tutti i cittadini, solo per andare in tribunale o svolgere servizi burocratici. Trattasi dunque di centro d’affari. Più o meno.

Le grandi imprese e le società hanno dopo i primi anni lasciato il luogo, che ha anche la caratteristica di essere poco raggiungibile per tornare nel vivo dei quartieri cittadini. Non si impone un’identità. Essa cresce, si evolve e storicizza con il vivere dei propri abitanti. Un accorta politica urbanistica dovrebbe saper leggere il segno costante nel tempo e su quello fare perno per migliorare i luoghi. Non s’impone un’identità, si aiuta quella che c’è nella propria evoluzione. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, dicevano gli antichi. Impossibile dar loro torto.

Bisogna evitare di ricommettere gli stessi errori. Aree dismesse ce ne sono in ogni città e quindi la famosa strada per l’inferno è ancora lastricata d’oro. Il dibattito è aperto ed in fondo Dorian Gray non aveva torto: purché se ne parli. Significa che la forza dei processi trasformativi in atto nelle città è talmente potente da non poter essere ignorata, e che, se aiutata a seguire il proprio verso evolutivo, porterà sicuramente a qualcosa di buono che arricchirà ancora un po’ l’identità storica della città. Senza imposizioni che la sconvolgano o la privino della sua caratteristica prima l’identità sarà sempre e solo il complesso dei dati personali caratteristici e fondamentali che consentono l’individuazione di un popolo, di una città. I dotti, cultori e sapienti fautori fino ad oggi della pianificazione sociale, potranno anche sentirsi come il bimbo cui la maestra buca il palloncino, ma tant’è. Il miglior risultato sul territorio si ottiene aiutando la traccia evolutiva che il suo popolo nella sua evoluzione quotidiana segna.

A Napoli si sono sovrapposte tante culture che hanno contribuito alla definizione dell’identità del popolo napoletano che, da solo, ne ha gestito l’evoluzione e il consolidamento senza l’ausilio di un deus ex machina, poco deus e molto, troppo machina, che imponesse il modello in cui trasformarsi. A Fuorigrotta, quartiere dal tessuto prevalentemente piccolo borghese con buona vocazione al piccolo commercio, c’è l’area dell’ex mercatino, oggi dismessa. Chiusa tra palazzi non ha una definizione, si presta a scambi malavitosi, insomma una vera area da recuperare. A Fuorigrotta c’è la Mostra d’Oltremare, lo Stadio, moli piccoli complessi sportivi e alcuni alberghi. Il quartiere è vicino al mare e alle terme. Recuperare l’aspetto internazionale che i progettisti di Mostra, Stadio e strutture annesse vollero dare a questo luogo, suggerisce anche il naturale riutilizzo dell’ex mercatino: da un lato tenendo ferma la sua identità di luogo di scambi, dall’altra aprendo ad una frequentazione internazionale che potrebbe trovare sponda nell’utilizzo della Mostra d’Oltremare nella funzione di centro d’incontri tra nazioni straniere, d’oltremare dunque. Un mercatino etnico, sul genere di quello che si trova a Kreuzberg Il quartiere turco di Berlino. Potrebbe con l’ausilio di una buona progettazione diventare un luogo di raccolta per vendita, mostra esposizione ed eventi di artigianato, sartoria e iniziative. In tal modo pur conservando la sua identità storica di luogo di scambi commerciali, evolvendosi secondo i tempi, potrebbe diventare un dignitoso luogo di lavoro per i tanti extracomunitari regolari che sono in città e un luogo di grande frequentazione turistica. La presenza della Mostra d’Oltremare come sede dei rapporti internazionali donerebbe al quartiere quella crescita identitaria che senza annullare o soffocare la storica traccia potrebbe seguire il filo dell’evoluzione dei tempi.

Di Fabiana Gardini

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